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L’osservazione del lavoro formale. Gestioni, pratiche e procedure

L’osservazione del lavoro formale. Gestioni, pratiche e procedure

Cartografie Sociali – Rivista di sociologia e scienze umane è una delle articolazioni entro le quali, a partire dal 2016, il progetto URiT – Unità di ricerca sulle Topografie Sociali dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, si è riversato. La rivista nasce dalla necessità di affiancare alla produzione di monografie scientifiche modalità più agili e versatili di diffusione dei testi, in grado di raggiungere potenzialmente un pubblico ampio e diversificato, e dall’esigenza – sempre più avvertita dal gruppo – di aprire con maggior continuità le proprie prospettive di ricerca al confronto con la comunità scientifica nazionale e internazionale, con i tanti interlocutori e autentici compagni di strada incontrati in questi anni in Italia, Francia, Regno Unito, Maghreb, Vicino Oriente, Nordamerica, America Latina.

L’ultimo numero di Cartografie Sociali rappresenta il risultato di un ciclo di seminari intitolato “Un racconto sul lavoro formale. Mercato cultura e governamentalità, ieri, oggi e domani” svoltosi tra marzo e aprile 2021, a cui hanno partecipato ricercatori, accademici, studenti, attivisti, sindacalisti e di cui pubblichiamo l’editoriale a cura di Anna D’Ascenzio e Fabrizio Greco.

Premesse d’arte e propositi discorsivi

Il presente numero di Cartografie Sociali rappresenta il risultato di un programma seminariale intitolato “Un racconto sul lavoro formale. Mercato cultura e governamentalità, ieri, oggi e domani”. [1]

Gli incontri sono stati pensati quando il trauma esogeno della pandemia era già esploso, intaccando i precisi confini tra fatto sociale totale maussiano e questione sociale. In tale contesto storico, le discussioni tra e con gli autori hanno avuto il merito di avviare una prima riflessione pubblica sullo stato del lavoro formale in Italia, visto che lo shock pandemico e la conseguente cura emergenziale hanno fatto sorgere nuovi interrogativi sulla tenuta del legame sociale, a «partire dalle diverse modalità di distribuzione della ricchezza e all’incompatibilità strutturale tra accumulazione e riproduzione sociale» (Petrillo 2020, p. 12).

Come emerge dai contributi raccolti in volume, non vi è stato alcun interesse al «minimalismo della rincorsa perpetua del ‘piccolo Stato sociale’, con le sue politiche locali di sostegno al reddito e ‘inserimento’, né quella del sogno nostalgico di un nuovo ‘grande Stato sociale» (Petrillo 2019, p. 34), un interesse di parte frequentemente rimproverato da una letteratura disattenta e a volte in malafede.

Lo sforzo teorico si è raccolto nell’ambizioso obiettivo di riagganciare le soggettività disperse delle vite “senza valore” alla “questione sociale”, investigando l’unità di differenti posizioni in rapporto alle attuali ristrutturazioni economiche e sociali.

Esplicitare al lettore il desiderio di sottrarre la questione sociale al grande erbario della miseria ha evitato agli autori di cadere nella trappola delle «classificazioni orizzontali e statiche, naturalistiche e morali delle tipologie dei poveri» (Ibidem), permettendo a ognuno di loro di tracciare genealogicamente un affresco diacronico e causale delle vulnerabilità di massa. Nel definire il perimetro del dipinto delle diverse e inedite forme della fragilità sociale, non si è potuto omettere che, durante le fasi più acute della pandemia, il governo emergenziale ha assunto svariate forme discorsive.

La gestione pandemica, in qualità di fatto emergenziale, ha assunto le forme di un espediente narrativo non dissimile da quello già descritto da Michel Foucault (1978) nel primo capitolo de “Le parole e le cose”, rispetto alla trovata artistica di Diego Velázquez nel quadro Las Meninas (1656), orientando così lo sguardo del potenziale spettatore  a un certo articolare di parola pubblica.

Il pittore, a mo’ di artificio stilistico, si ritrae nell’atto di raffigurare il grottesco corpo del sovrano. Il gesto incalza l’osservatore, costringendolo all’osservazione  attenta di un punto esatto, di per sé assente e invisibile. In realtà, come chiarisce Foucault,  Velázquez indirizzando lo sguardo verso una precisa direzione, ne delimita la potenza, obbligandolo a scrutare ripetutamente l’assenza. Il punto di tale assenza è prima fissato come spazio dell’irrappresentabile, poi come nascondiglio essenziale attraverso cui sottrarsi nel guardare l’altro. L’osservatore non intuisce – chiosa Foucault – di essere divenuto lui stesso oggetto di uno sguardo pittorico che oscura «a ritroso tutta una trama complessa d’incertezze, di scambi, di finte» [2]. Intuendo che l’articolazione del dibattito pubblico sul tema della pandemia [3] non è stato dissimile dalla trappola visiva  ideata dal pittore spagnolo, si è scelto di non replicare la falla discorsiva descritta dal filosofo francese, proiettando deliberatamente lo sguardo del lettore verso dimensioni che aspirano a liberare altre voci, altre visioni e altre resistenze.

Alla luce della sopracitata riflessione sull’irrappresentabilità nelle fasi più acute della questione pandemica sono stati anche esaminati gli escamotage retorici presenti nel disegno Die Arbeiterklasse um fünf Uhr morgens (La classe operaia alle cinque di mattina). La tavola, con altre 56 riproduzioni, compone la feroce raffigurazione grafica di Das Gesicht der herrschenden Klasse (Il volto della classe dirigente) di George Grosz (1974).

L’artista tedesco, animatore con Max Ernst, durante le due guerre mondiali, del movimento dadaista, celebra con una secca riga di matita l’“operaismo a denti stretti”. Il segno grafico separa il corpo di inquieti lavoratori all’entrata in fabbrica da volgari borghesi sorpresi a vomitare champagne o a toccare un seno di un corpo desessualizzato. La raffigurazione è in sé potente. La linea separa le due storie, suggerendo allo spettatore un confine fisico tra chi può biograficamente proteggersi e celarsi, e chi, per effetto della disaffiliazione pandemica, sperimenta un’inedita solitudine individuale o una nuova e plateale miseria di posizione.

Il quadro, che pur raffigura sarcasticamente le inquietudini delle diverse classi nella decadente Repubblica di Weimar (1918-1933), sollecita l’osservatore a un diverso sguardo sulla società, esortandolo a pensare alla diversa posizione dei subalterni nella Grande Storia, dimostrando che l’arte, come la letteratura operaia, può indossare un canone interpretativo non dominante e sottrarsi dall’essere banale condizione libresca.

L’identificazione di altro artificio retorico sovverte il canone rivelando al contempo altre condotte, ma anche rischi e fatiche. Si schierano idealmente accanto a Grosz, contro la sola narrazione triste del lavoro, Alberto Prunetti e Fulvio Ianiro. Entrambi gli autori chiariscono, da punti di vista differenti, che la storia della classe operaia non è solo alienazione in fabbrica, stridio di macchine o replica millimetrica di azioni, ma anche biografia collettiva animata da un desiderio non triste.

L’individuazione di un diverso canone interpretativo sovverte l’idea di una fabbrica esclusivamente inquadrata nella meccanica fordista e produttivistica. La struttura produttiva appare, oggi, sempre più integrata e intrappolata in flussi informativi che valorizzano secondo precisi impulsi lean (snelli), una forma di potenziale e inespressa porosità gestionale (Landini et al. 2020).

L’intero volume delinea, così, una prima cartografia conflittuale, mappando al contempo saperi e pratiche resistenziali.

La rivalutazione della categoria sociologica del “conflitto” diviene fondamentale per comprendere i limiti di una cittadinanza morale basata sul concetto di auto-imprenditorialità, in cui la forza lavoro è costantemente rovesciata come capitale umano di segno e di senso.

Nell’idea cartografica di questo volume, se il lavoro rappresenta la chiave di lettura della contemporaneità sociale, il conflitto, come suggeriscono Wallace e Wolf (1994), ne diventa la postura metodologica, chiarendo che il singolo contributo ha un preciso posizionamento nel discorso delle scienze sociali, che non contempla alcuna neutralità o “positivistica” obiettività.

Vi è la consapevolezza che il processo di ristrutturazione neoliberale è un evento non neutrale che si contrappone alla singola pretesa di divenire biografico.

Si assiste, così, a un affresco economico, in cui impianti e macchine, fagocitati da algoritmi, che, confondendo percettivamente democratizzazione del lavoro e accelerazione del ritmo industriale, scrutano leadership e performance individuali. In tale contesto organizzativo, comunicazioni documentali, processi informativi e organigrammi delimitativi, già esaustivamente descritti da studiosi della fabbrica fordista, come Aldrich (2008), Schein (1990) o Mintzberg (1996), risultano, sempre più, rimpiazzate da inedite metodiche post-fordiste. Risulta emblematica in tal senso, l’asimmetria di potere relazionale degli operai tradizionali rispetto alla figura del team leader. Tale figura ha assunto una forma di potere  a-gerarchica e retorica che sussume costantemente metodi e metodiche di un sapere accademico definito Gestione delle Risorse Umane, che attraverso una sapiente contabilità del corpo dà forma e controllo (soft-power) a una precisa gerarchia burocratica e aziendale.

In altri termini, la secca riga tirata sul foglio dal pittore tedesco diviene, monito, confine e nuova riflessione non solo rispetto all’azione pittorica di Velázquez, ma anche alle forme emergenti del bio-capitalismo e alle sue conseguenti configurazioni narrative. La riga grafica, delimitando i confini tra dell’impercettibile e la potenzialità del visibile, attribuisce  forza retorica a chi risulta invisibile nel discorso pandemico ed economico.

In contrapposizione proprio al discorso economico e in piena sintonia con quanto scritto da Fabio de Nardis (infra), si sostiene che il lavoro è tutt’ora una delle possibili chiavi di lettura a disposizione della sociologia nella comprensione del fenomeno neoliberale. Come categoria sociologica, il lavoro assolve, al contempo, la funzione di oggetto scientifico, ma anche forma letteraria della modernità.

I lavoratori, nelle fasi più acute del lockdown, superando la facile sindrome del sopravvissuto o dell’esiliato, hanno ininterrottamente prodotto beni di prima necessità, erogato servizi essenziali in modalità smart working e consegnato, in qualità di operatori della logistica, scatole e pacchetti in ogni remota città d’Italia. Come nel quadro di Grosz, ogni giorno, alle cinque del mattino, i turnisti di Melfi, a bordo di uno sgangherato pulmino aziendale, sono entrati in fabbrica, senza che un certo racconto pubblico sul Coronavirus giudicasse legittima e “visibile” la loro angoscia di contagio. Legittima e “caparbiamente visibile” è stata anche la risoluta lotta del collettivo di fabbrica della GKN di Firenze, così come quella degli operai della Whirlpool di Napoli.

Collettivamente, come uomini e donne “appassionati alla battaglia delle idee” (Vittoria 2013), i lavoratori hanno sfoggiato una volontà di parola non a comando, rivendicando per sé la piena e consapevole soggettività politica. A tutti loro è dedicato il lavoro dei curatori e dei singoli autori.

In questo numero

La lunga premessa, riconsegnando la potenzialità del reale a soggetti non rappresentati, traccia anch’essa un’ideale linea grafica, indicando nel lavoro il principale punto di fuga rispetto alle trasformazioni prodotte dall’economia neoliberista. Gli scritti, confluiti nel presente volume, attribuiscono all’intera vicenda della NEWCO [4] un ordine spaziale e paradigmatico nel mutevole quadro delle relazioni industriali pre e post-pandemia. La vicenda ha attivato impulsi temporalmente estesi rispetto alla più complessa questione del lavoro, che ha portato i curatori a ipotizzare l’esistenza di uno spazio di saperi riconducibili alla cultura del lavoro, in cui esercitare una nuova battaglia egemonica, per una diversa idea di partecipazione democratica.

Gli articoli presenti in volume non si limiteranno a descrivere pratiche e saperi confinati nello spazio industriale, ma sveleranno le molteplici zone economiche e finanziarie che sussumono numerosi e multidimensionali momenti del bios e della vita tutta. L’estensione del luogo di lavoro si dilata temporalmente fino a inglobare le singole esistenze e a divenire oikonomia, ovvero logica mercantilista che pone fine alla tradizionale distinzione tra sfera privata e sfera pubblica [5].

Le riflessioni di Domenico Napolitano ed Edoardo Biscossi si concentrano sull’estensione del tempo di lavoro al tempo sociale. E per effetto di procedure informatiche e piattaforme digitali, il lavoro formale è alterato in lavoro socialmente irregolare. Tale trasformazione contribuisce alla formazione di un “valore-lavoro”, che mette in crisi l’assunto secondo cui la merce deve essere scambiata in equivalenza alla quantità di lavoro in essa contenuta. Il paradosso, chiarisce Andrea Fumagalli, è che più i fattori produttivi alludono al bios, più la teoria dello scambio di valore perde di senso e di validità esplicativa. Ne consegue che nella razionalità neoliberale la teoria del lavoro tradizionalmente intesa diviene incapace di cogliere l’essenza del processo di valorizzazione.

In tal senso, Roberto Ciccarelli, nel suo contributo teorico, chiarisce che il capitalismo bio-cognitivo necessita di un costante scambio tra flessibilità e sicurezza, il cui presupposto è da ricercarsi in un nuovo regime di welfare neoliberale. La forza lavoro, oggetto e soggetto del precedente welfare, coincide e sopravvive in tale contesto economico, come forma di flex-insecurity, ovvero come sfruttamento flessibile, il cui obiettivo è la modifica performativa del potenziale disoccupato in un soggetto di rischio responsabile della propria occupabilità. Tale obiettivo, pur presente anche nelle vecchie strutture di welfare, è ora raggiungibile come traguardo, dopo che il soggetto subordinato ha introiettato un’angoscia sufficiente a renderlo disponibile per ogni potenziale impiego.

Il campo del lavoro è anche indagato attraverso la lente dell’organizzazione aziendale, pur avendo scelto – come curatori del numero – di non adottare come giusta causa teorica l’estrazione di dati relativi a dinamiche economiche o biostatistiche finanziarie, non si è trascurato l’osservazione della concreta prassi industriale. Nel caso del tessile, settore economico indagato da Tania Toffanin, la statica aziendale, intesa come azione di tipo industriale, diviene frammentazione di unità amministrative e liquefazione di infrastrutture di collegamento in distretti produttivi e reti aziendali.

I casi studio di Lorenzo Coccoli e Biagio Quattrocchi e Laura Giovinazzi analizzano, invece, il lavoro come pratica di dominio amministrativo (Weber 2018), a cui è necessario opporsi anche attraverso il recupero memoriale di esperienze di lotta e conricerca  (Michele De Palma infra). I processi finora descritti risultano sempre performativi all’intero di una geografia burocratica e gestionale, in cui contratti e forme manageriali determinano una sovrapposizione di regole formali e pratiche informali, che tendono a confondersi in un “fare istituzione” e “un fare impresa”, elastico e discrezionale (D’Ascenzio infra).

Emerge dai contributi, che le dinamiche produttive sussumono l’irruenza creativa dell’Homo Faber (Supiot 2020), anche attraverso la messa a sistema di metriche di flusso, come nel caso di processi logistici orientati al World Class Manufacturing (WCM) o all’Universal Analyzing System (UAS) [6]. In ogni fase di vita, l’azione del lavoratore non è banalmente dominata dalla contabilità capitalistica, ma da una pura estrazione di bio-capitalismo che, come scrive Monica Buonanno, agisce anche rispetto a passaggi di carriera, in cui il meta-messaggio attitudinale [7] incita a un saper fare e a saper competere, sempre più solitario e identitario. Come sottolineato nel saggio di Ciro Pizzo, i diversi passaggi di carriera partecipano a uno slittamento dimensionale del welfare, una fase della pubblica assistenza, che già Robert Castel (2019) ha definito essere parte del processo di dissoluzione del sociale.

Il fenomeno surroga e sostituisce le diverse forme di partecipazione collettiva al welfare. L’adesione a differenti misure di workfare coincide come estrazione di valore dal beneficiario, con la trasformazione delle politiche per il lavoro, che Guido Cavalca individua essere, una prima e in fieri applicazione del paradigma di attivazione.

Nel contesto sinora descritto, più che a una contrapposizione tra valori e interessi (libertà economiche contro diritti sociali), si assiste come spettatori, per dirla con l’indimenticabile Luciano Gallino (2012), a un conflitto unilaterale, in cui la “lotta di classe” è stata agita dalle classi dominanti che:

si sono mobilitate e hanno cominciato loro a condurre una lotta di classe dall’alto per recuperare il terreno perduto. Simile recupero si è concretato in molteplici iniziative specifiche e convergenti. Si è puntato […] a contenere i salari reali, ovvero i redditi da lavoro dipendente; a reintrodurre condizioni di lavoro più rigide nelle fabbriche e negli uffici; a far salire nuovamente la quota dei profitti sul Pil che era stata erosa dagli aumenti salariali, dagli investimenti, dalle imposte del periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Ottanta. In sostanza non è affatto venuta meno la lotta di classe. Semmai, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente (Ivi, pp. 11-12).

In questa logica, l’introduzione di “misure” di workfare non è più (e forse non lo è mai stato) emancipazione dalla povertà, ma governo delle povertà agito dalle classi dominanti nei confronti dei dominati.

Nel sottrarsi collettivamente alla supremazia neoliberale, la sociologia di posizione si fa sport de combat (Bourdieu 2015) non limitandosi a guardare il governo del reale, ma opponendosi a esso “ascoltando il reale” (Petrillo 2015, p. 24), senza farsi sedurre da trappole narrative, lusinghe retoriche o rassicurazioni visive. 

Infine, nel ringraziare gli autori, ci piace pensare che il numero di Cartografie Sociali servirà da nave-vascello per solcare molte onde e molti mari, spingendo il lettore ad affrontare tempeste improvvise e scrutare meravigliato orizzonti sconosciuti.

Note

[1] Il ciclo dei seminari, svoltosi il 24, 26 e 31 marzo 2021 in modalità Webinar,  ha previsto tre incontri dal titolo: “Lo stato dell’arte nello spazio della produzione industriale”; “Il mercato dell’economia del sociale”; “La cultura del lavoro ieri, oggi e domani”. I testi raccolti all’interno di questo volume sono stati sviluppati a seguito degli incontri.

[2] Mayol F., Michel Foucault ~ Las Meninas di Velazquez, in «wwww.federicomayol.wordpress.com», 18 dicembre 2019.

[3] Si pensi alla statistica quotidiana relativa al numero dei contagi giornalieri o allo scontro tra vaccinisti e non.

[4] Gli autori hanno condiviso l’ipotesi che certi esiti industriali relativi all’intero comparto manifatturiero siano stati lungamente condizionati dalla vicenda produttiva di Fabbrica Italia. Nelle intenzioni dell’allora Amministratore Delegato, Sergio Marchionne, il Piano della Fiat per le annualità 2010-2014, avrebbe dovuto innovare i sistemi produttivi di ogni singolo stabilimento in Italia. La metà di quelle proposte aziendali avrebbero dovuto compiersi, a seguito di un investimento di 30 miliardi, e a un aumento di pezzi auto che sarebbe dovuto passare da 650 mila unità nel 2009 al un milione e 650 mila nel 2014. In realtà, la riorganizzazione industriale seguita alla pianificazione del progetto Fabbrica Italia, fu l’inizio di un lungo periodo di “piani” industriali che hanno avuto un’unica costante: «fare più profitti possibili scaricando sugli operai, sull’INPS e sullo Stato la maggior parte dei costit». Cfr. Fiat, che cos’è Fabbrica Italia, in «www.vanityfair.it», 19 aprile 2017.

[5] La fine tra sfera pubblica e sfera privata rappresenta uno degli aspetti più controversi nel passaggio dal capitalismo fordista al capitalismo bio-cognitivo, poiché presuppone uno sviluppo differenziato delle prestazioni lavorative favorendo, come emerge dal contributo di Andrea Fumagalli (infra), l’eterogeneità della forza-lavoro.

[6] Il tema risulta efficacemente analizzato nella sezione Travelogues. Le recensioni sono state curate da Federica Graziano e Andrea Postiglione.

[7] Il tema della formazione come meta-messaggio è esaustivamente analizzato nella traduzione del testo di Nora Bateson a cura di Anna Cotone (infra).

Bibliografia

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