Marco Armiero (1966), Storico dell'ambiente e political ecologist, è direttore…
Versione italiana – pubblicata per la prima volta su Operaviva il 1 febbraio 2020 – tratta da M. Armiero, The Environmental Humanities and the Current Socioecological Crisis, in Global Network for University Innovation, Humanities and Higher Education: Synergies between Science, Technology and Humanities, Higher Education in the World 7, GUNi 2019
http://www.guninetwork.org/files/download_full_report_heiw7.pdf.
Viviamo una crisi multiforme. Gli scienziati ci sollecitano ad agire sui cambiamenti climatici, a influenzare le politiche governative e i comportamenti quotidiani.
La crisi ecologica si intreccia a una vasta gamma di problemi sociali, dall’intensificarsi della violenza all’austerità e alle tensioni internazionali. Xenofobia, populismo, persino la nostalgia del fascismo, sembrano essere le sole risposte alle ansie di chi è stato colpito dalla globalizzazione selvaggia e dalla spietatezza neoliberale.
Non è un caso che tutto sia avvenuto in momento culturale dominato dalle retoriche dei post-fatti, delle fake news e da un feroce attacco agli intellettuali. Lo smantellamento del pensiero critico, l’affermarsi di ordini del discorso semplificanti e la cancellazione delle memorie collettive sono ingredienti cruciali per la creazione di soggetti docili e manipolabili.
È stato detto che, per affrontare la complessità di questa crisi, gli esperti debbano mobilitarsi; che conoscenze adeguate dovrebbero sostituire credenze infondate; che vadano proposte soluzioni razionali; e che i saperi accademici sono chiamati a dimostrare il loro valore sociale. Se è vero che uscire dalla torre d’avorio e impegnarsi con le sfide del presente sono esercizi salutari, la chiamata alle conoscenze degli esperti può portare a spoliticizzare la ricerca delle cause e delle soluzioni alla crisi. Certo, chi fa ricerca dovrebbe contribuire a trovare soluzioni collettive, ma deve anche sollevare problemi. In altre parole, deve aiutare a riformulare i problemi, le domande, sfidare le ipotesi generali e immaginare alternative.
Le Environmental Humanities (discipline umanistiche ambientali) sono particolarmente adatte a questo scopo: per Iovino e Oppermann nascono con l’ambizione di far interagire «le scienze sociali, le discipline umanistiche e le scienze naturali per affrontare le attuali crisi ecologiche» (Iovino, Opperman 2017, p. 1).
Mappe della conoscenza, conoscenza delle mappe
Guarda la mappa di un campus, qualsiasi campus nel mondo. La mappa non serve solo a guidare le persone perché non si perdano nel labirinto di strade ed edifici che costituiscono le nostre università. Quella mappa organizza anche i modi in cui ci muoviamo. Ecco l’angolo delle Humanities, l’edificio Life Science, la School of Economics, i laboratori di ingegneria (e molto altro). Se ti perdi e provi a chiedere informazioni, appare evidente che gli studenti non varcano mai le frontiere della loro zona. Trascorrono i loro anni universitari tra gli stessi edifici; il resto della mappa rimane terra incognita. Il problema è che quella mappa rivela come guardiamo al mondo attraverso discipline distinte. Gli studi umanistici non si mescolano con le scienze della vita e gli economisti possono ballare con i lupi, sicuri che nessuno li sta a guardare.
Questo effetto delle mappe non è una prerogativa delle università. Le mappe prodotte dalle multinazionali per le loro infrastrutture di approvvigionamento, le miniere e le autostrade, sono esempi di conoscenze fortemente selettive. Possono essere perfette da un punto di vista geologico, ma sono completamente cieche ad altre dimensioni delle terre che dovrebbero rappresentare.
Come ha argomentato brillantemente James Scott, le mappe sono strumenti per imporre un potere che semplifichi il complesso intreccio (entanglement) socio-ecologico che costituisce la realtà. Non solo separano la foresta dal villaggio, ma separano anche le conoscenze attraverso cui sappiamo della foresta da quelle che usiamo per capire il villaggio. Operano come le mappe universitarie, sono matrici per organizzare la nostra esperienza dello spazio e della conoscenza.
Come sostiene Scott, il potere di quella mappa risiede «non nella mappa, ovviamente, ma piuttosto nel potere di chi utilizza la prospettiva di quella particolare mappa» (Scott 1998, p. 87).
Le mappe, invece, possono essere – dovrebbero essere – più complicate. Prendiamo, ad esempio, la mappa di un quartiere popolare alla periferia di Napoli che ho usato durante la mia ricerca sui rifiuti e le lotte per la giustizia ambientale. Per disegnare e interpretare quella mappa abbiamo bisogno di una pluralità di conoscenze e ancor più di un atteggiamento che renda possibile muoversi tra discipline e non rimanere bloccati al di qua di un confine disciplinare.
La discarica e la foresta, il centro sociale e la rotonda del Titanic sono solo alcuni dei centri gravitazionali nella geografia di quel quartiere, che non possono essere appresi isolatamente da un ingegnere ambientale, da una guardia forestale, da un sociologo o da un urbanista.
Quando vengono collocati su quella mappa acquisiscono nuovi significati, quelli creati dalle relazioni che li collegano attraverso lo spazio, il tempo, le emozioni, i ricordi e le pratiche.
Contro la norma. Il posto delle cose «strane»
Fortunatamente le cose stanno cambiando. Negli ultimi anni ambienti ibridi post-disciplinari stanno emergendo ovunque nelle università. Le discipline umanistiche sono state in prima linea in questa ibridazione, combinandosi con altre discipline per aprire nuovi campi, come le discipline umanistiche mediche (Medical Humanities), le discipline geoumanistiche, le discipline umanistiche digitali (Digital Humanities) e le Environmental Humanities (EH).
Queste ultime sono forse state l’innovazione più riuscita e promettente, che ha portato alla proliferazione di esperienze accademiche e che a volte è riuscita a modificare l’impostazione delle discipline umanistiche, creando osservatori, laboratori e hub, nuove riviste e collane editoriali.
Si pensi ad esempio al Master dell’Università Roma Tre Studi del territorio – Environmental Humanities. Iniziativa lanciata nel 2015, è il risultato di incontri, affinità e attività già in corso, dentro e oltre l’accademia, che hanno aperto uno spazio di formazione imprevisto per l’università italiana. Urbanistica, architettura, politica ed estetica, geografia e comunicazione concorrono a presentare questioni e a coinvolgere in esperienze e pratiche, al di là dei lessici delle singole discipline. Il punto di partenza e di convergenza è infatti il territorio – come attraversarlo, abitarlo, con che parole dirlo, come immaginarlo e trasformarlo. Da questa impostazione deriva la presenza di soggetti diversi, da Stalker/Osservatorio nomade, con le sue esplorazioni spaziali, alla rete CNCA (Coordinamento Nazionale Centri di Accoglienza) e i progetti di agricoltura sociale, fino alle campagne per la giustizia ambientale di A sud.
Oppure alla collana editoriale «habitus – environmental humanities» della casa editrice DeriveApprodi, che porta avanti una riflessione sulle nuove ecologie attraverso un’indagine che spazia dalle pratiche del giardino alle prassi agricole, dimostrando come stiano emergendo modalità di relazione con l’ambiente che spingono a interrogare la divisione tra conoscenze teoriche e saperi tecnici, impatto estetico e questioni etiche. I confini della narrativa ecologica vengono qui ritracciati a partire dall’interrogazione di quelle prassi e tecniche umane che si pongono il problema di trovare altri modi per relazionarsi con l’insieme del vivente (e non solo) presente su questo pianeta. È allora possibile accorgersi quanto gli stessi confini delle scienze umane vengano messi in discussione dalle cosiddette «agri-ecologie», esperienze di agricoltura capaci di riflettere anche in chiave epistemologica sulla propria collocazione nel mondo attuale e a venire (che contribuiscono a creare fin da ora).
Sebbene le definizioni e ancor più le pratiche di questo nuovo campo siano tuttora in divenire, possiamo fornire alcune informazioni di base sulle caratteristiche di questo ambito. Comprende tutte le discipline umanistiche che affrontano le questioni ambientali, dall’ecocritism alla storia ambientale, dalla filosofia dell’ambiente all’arte e alle discipline cinematografiche, per citarne alcune.
Anziché considerarla una nuova disciplina accademica, immagino le EH come un campo multidisciplinare in cui converge chi proviene da varie discipline, spesso motivato da un forte impegno verso le sfide ambientali del presente. Come hanno scritto Serenella Iovino e Serpil Opperman in un volume introduttivo alle EH, questo ambito «mette insieme le scienze sociali, le scienze umane e le scienze naturali al fine di affrontare le crisi ecologiche attuali, da prospettive che intrecciano strettamente le dimensioni etiche, culturali, filosofiche, politiche, sociali e biologiche» (Iovino, Opperman 2017, p. 1). Lo storico Sverker Sörlin ha indicato le EH quale prototipo di quel campo che ha definito discipline umanistiche integrate (integrative humanities), ovvero quelle discipline che fanno propria una causa e si identificano in un più vasto progetto di trasformazione tanto dei saperi accademici quanto della società (2018, p. 94).
L’Environmental Humanities Laboratory (di seguito EHL) del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma è un esempio di questa riconfigurazione delle discipline umanistiche in connessione con le questioni ambientali e le conoscenze scientifiche. L’EHL ha adottato il motto «indiscipliniamo le discipline umanistiche» dal 2011;
parlare di «indisciplina» intende segnalare l’allontanamento dai modi consueti di produrre conoscenza e dai limiti delle discipline – spesso radicate in processi di costruzione della conoscenza di stampo coloniale, patriarcale, razzista, classista, eteronormativo, ecc.
Tradurre la scelta per la «indisciplina» in un coerente progetto scientifico sarebbe una forzatura ma, parafrasando John Holloway (2010), possiamo sostenere che la postura indisciplinata dell’EHL assembla un «no» – alla tradizione disciplinare classica – che implica di per sé la ricerca di alternative.
Caso 1 – Environmental Humanities Laboratory (EHL), KTH Royal Institute of Technology, Svezia
La fondazione del Laboratorio nel 2011 è il risultato della volontà di connettere il lavoro accademico svolto presso un Dipartimento universitario con un’agenda che affronti la sostenibilità e le sfide sociali e che contribuisca alla trasformazione delle discipline umanistiche in Svezia e non solo. Quanto ai canali di finanziamento, l’EHL dimostra le potenzialità delle discipline umanistiche ambientali; la creazione del Lab è stata possibile grazie a una donazione dell’industriale Carl Bennet, abbinata a fondi interni del KTH. La dicitura «Laboratorio» intende sottolineare la natura sperimentale e l’approccio pratico di questa iniziativa. Dal cinema come pratica di ricerca alle narrazioni tossiche, intese come un esperimento di public EH, l’EHL ha realizzato una serie di progetti, tramite collaborazioni che vanno oltre il mondo accademico.
Che fare (con le Environmental Humanities)?
Data la crisi planetaria contemporanea, la combinazione tra discipline umanistiche e ambiente appare estremamente significativa. Mentre venerabili istituzioni come il MIT hanno una tradizione umanistica integrata nei curricula tecnici e scientifici, nuovi esperimenti stanno comparendo all’orizzonte, come ad esempio la London Interdisciplinary School con la sua Laurea in Arti e scienze. Le EH sono anche state definite «discipline umanistiche sostenibili» (Griffiths 2007; LeMenager e Foote 2012).
L’invenzione delle EH e la loro convergenza con studi/discorsi/politiche sulla sostenibilità appare come un’occasione per discipline che sembravano destinate all’irrilevanza, se non all’estinzione.
Si può dunque dire che le discipline umanistiche ambientali sono il tipo di conoscenza di cui abbiamo bisogno in questi tempi complicati; quella delle EH è un caso riuscito che dimostra come le discipline possono essere rinnovate quando si sceglie di ascoltare le urgenze del presente. E tuttavia vorrei guardare più in profondità alle sfide delle EH. Mi chiedo infatti se rappresentano solo un espediente per rinnovare alcune discipline vecchio stile, mettendole in sintonia con i problemi contemporanei, o se invece siano l’occasione di cambiare al contempo le discipline e i modi di impostare i problemi. Cominciamo dallo stesso concetto di sostenibilità. Sebbene apprezzi il fatto che gli umanisti abbiano iniziato ad affrontare la questione, penso che sarebbe bene che non smettessero di fare ciò che sanno fare meglio, come ad esempio esercitare il pensiero critico.
Affrontare la questione della sostenibilità dovrebbe significare ripensare che cos’è la sostenibilità, più che riprodurre discorsi già noti. La ricostruzione di genealogie storiche e concettuali, le analisi degli usi politici dei discorsi e le domande su chi vince e chi perde sono il pane quotidiano di chi fa ricerca nelle discipline umanistiche e possono cambiare i modi di concepire la sostenibilità. Si tratta di un punto cruciale quando, ad esempio, le EH sono cooptate in iniziative pratiche, come quelle volte a rendere più «verdi» le nostre università.
Formare studiosi consapevoli delle conseguenze dei loro viaggi è oggi un topos ricorrente nei discorsi sui modi per rendere le università più sostenibili; e l’impegno individuale è senza dubbio importante nella costruzione di una società più sostenibile, ma concentrarsi sulla sola responsabilità individuale può invece apparire sospetto.
Se le università intendono diventare sostenibili, credo che sia necessario sollecitare un disinvestimento dalle energie fossili e un ripensamento delle eventuali collaborazioni con le multinazionali che sono fortemente coinvolte nella crisi ecologica attuale. È inoltre necessario apportare cambiamenti radicali ai curricula universitari per cambiare il modo in cui costruiamo le nostre infrastrutture, intendiamo la salute pubblica, gestiamo le aziende, pensiamo all’economia e scriviamo le nostre storie. Altrimenti potremmo correre il rischio di ridurre sì i nostri viaggi in aereo, ma continuando a insegnare o trasmettere contenuti e metodi immutati.
Per altri versi, chi ha intrapreso percorsi di studi umanistici ha una particolare capacità di lavorare sulle narrazioni quando non decida di rimanere intrappolato in un gergo accademico incomprensibile. In questa prospettiva, alcuni sostengono che il compito principale della formazione umanistica dovrebbe essere la traduzione: gli scienziati producono conoscenza e gli umanisti trovano modi per renderla intelligibile a un pubblico più ampio. Anche se questa può essere una possibile forma di collaborazione, credo che le EH dovrebbero essere più ambiziose.
Dovrebbero mirare non solo a tradurre i risultati della ricerca ma a essere parte integrante dei progetti, provando a cambiare le pratiche tanto di produzione quanto di accesso alla conoscenza scientifica.
Un buon esempio è quello della ricerca nel campo della giustizia ambientale, perché implica il riconoscimento della pluralità di soggetti che producono conoscenza, il conflitto tra i diversi regimi di verità e la necessità di mobilitare strumenti metodologici diversi per scavare nella complessità dei problemi socio-ecologici.
Dallo story-telling tossico all’epidemiologia popolare, dalla pianificazione urbana alla chimica, la giustizia ambientale è uno di quei campi in cui la conoscenza post-disciplinare non è solo altamente necessaria ma viene modellata dalle pratiche stesse che emergono nelle comunità interessate.
Caso 2 – Il progetto Toxic Bios
Toxic Bios è un progetto umanistico ambientale sviluppato da EHL, che mira a coprodurre e/o scoprire storie di contaminazione e resistenza. Attraverso l’adozione di un approccio autobiografico, il progetto ha raccolto in tutta Europa circa 60 storie di persone che dichiarano di avere sperimentato a livello personale o collettivo qualche forma di contaminazione. Il progetto si rifà alla tradizione della con-ricerca e ricerca-azione, che respinge l’opposizione binaria tra esperti e pubblico e al contempo «indisciplina» lo spazio della produzione e legittimazione della conoscenza. È un esempio di come le EH possono interagire con le comunità non solo attraverso la divulgazione ma anche attraverso la co-progettazione della ricerca. Toxic Bios dimostra la possibilità di utilizzare la dimestichezza che discipline umanistiche hanno con le forme narrative per elaborare metodologie di ricerca e interventi trasformativi. Il progetto si presenta anche come guerriglia narrativa, in riferimento all’impegno nel produrre narrazioni contro-egemoniche finalizzate a smantellare – o per lo meno a rivelare – le narrazioni tossiche che silenziano o normalizzano l’ingiustizia socioambientale. Affrontare la violenza simbolica delle narrazioni tossiche, diffondendo storie di contaminazione che vengono nascoste al pubblico o combattere il diniego istituzionale dei rischi di contaminazione e dei danni, è il primo, fondamentale passo per realizzare una «giustizia ambientale», ovvero per affrontare la violenza ambientale e sollecitare interventi pubblici appropriati (Armiero et al. 2019). Per ulteriori informazioni sul progetto Toxic Bios, visitare www.toxicbios.eu.
Sette punti programmatici per delle Environmental Humanities indisciplinate
1. Chi studia e fa ricerca nelle EH non deve smettere di essere un’umanista perché ciò che scrive o dice diventi rilevante.
2. Uscire dalla la torre d’avorio del mondo accademico è un passo importante, ma bisogna anche decidere dove andare una volta valicato il muro. Una grande multinazionale e un’organizzazione di base sono entrambe fuori dalla torre.
3. L’urgenza di fare qualcosa di utile non significa smettere di porsi domande fondamentali: cosa è utile? Chi decide cosa è utile? Utile per chi o cosa? Quale potrebbe essere una valida alternativa a cosa appare come ovviamente utile?
4. Un discorso, un romanzo, una fotografia, una canzone, una poesia o un’opera d’arte possono avere un impatto straordinario. Il fatto che l’attuale sistema accademico neoliberista non sappia come misurarlo non li rende irrilevanti.
5. Chi studia insegna e fa ricerca nelle EH dovrebbe cercare di cambiare le pratiche di ricerca e insegnamento. Un programma fatto solo di testi scritti da maschi bianchi, per esempio, non trasmetterà nessun messaggio trasformativo.
6. Chi studia, insegna e fa ricerca nelle EH dovrebbe esplorare nuovi linguaggi per comunicare la propria ricerca.
7. Molte contraddizioni si presentano a chi studia, insegna e fa ricerca nelle EH quando lavora per produrre alternative: le gerarchie nella produzione di conoscenza, che privilegiano le accademie del Nord globale; la mercificazione della conoscenza; le misurazioni bibliometriche; e l’assoluta svalutazione di attività come l’insegnamento e la sensibilizzazione. Per questo, è necessario padroneggiare il canone per liberarsene.
Caso 3 – La call per un Gabinetto di Curiosità per l’Antropocene
Nel febbraio 2014 il Centro per la cultura, la storia e l’ambiente (CHE), in collaborazione con il Rachel Carson Center e il KTH Environmental Laboratory, ha organizzato un Anthropocene Slam, invitando i partecipanti a proporre oggetti che potessero aiutarci a «ripensare la relazione umana con il tempo, lo spazio e l’agency delle cose, che modellano il cambiamento planetario». Nello spirito del poetry slam (gara di poesie), ciascuno ha presentato un oggetto da selezionare come parte di una mostra presso il Deutsches Museum. Credo che questo progetto possa essere utilizzato come un esempio di ciò che potrebbe essere un progetto umanistico ambientale non disciplinare (Armiero 2017). L’iniziativa ha mobilitato studiose, scrittori e artiste, ben oltre ogni disciplina e confine accademico. L’impostazione insolita ha sbrigliato la creatività, producendo un evento pubblico intellettualmente coinvolgente e divertente, che «ha valicato i confini disciplinari aprendo un’arena per le EH; con l’ambizione di parlare al di là del circolo accademico, attraverso la sperimentazione di linguaggi e strumenti inusuali; per intervenire nei dibattiti in corso, rivendicando la dimensione politica delle discipline umanistiche senza rinunciare alla poesia, alla giocosità e all’umorismo» (Armiero 2017, pp. 56-57). L’Anthropocene Slam è anche un ottimo esempio di come sperimentare le EH attraverso una pluralità di linguaggi e circostanze; in effetti, oltre all’evento pubblico (lo Slam in sé), sono state realizzate la mostra digitale e museale e una pubblicazione (Mitman, Armiero ed Emmett 2018). L’iniziativa è stata seguita con grande interesse in tutto il mondo, con altre istituzioni che la hanno ripresa in formati simili, come l’Università del Queensland in Australia e L’EH Switzerland a Zurigo. Per ulteriori informazioni sull’Anthropocene Cabinet of Curiosities Slam, https://nelson. wisc.edu/che/anthroslam/
Riferimenti
Armiero, Marco et al. (2019). Toxic Bios: Toxic Autobiographies— A Public Environmental Humanities Project. “Environmental Justice”, 12 (1).
Armiero, Marco. (2017). Environmental History between Institutionalization and Revolution: A Short Commentary with Two Sites and One Experiment. In Environmental Humanities. Voices from the Anthropocene, Serenella Iovino and Serpil Oppermann (eds.). London: Rowman and Littlefield International, 45-60.
Griffiths, Tom. (2017). The Humanities and an Environmentally Sustainable Australia. “Australian Humanities Review”, 43.
Holloway, John. (2010). Change the World Without Taking Power. London – New York: Pluto press. Iovino, Serenella and Oppermann, Serpil. (2017). Environmental Humanities. Voices from the Anthropocene. London: Rowman and Littlefield International LeMenager, Stephanie and Foote, Stephanie. (2012). The Sustainable Humanities. PMLA 127(3): 572–578 Mitman, Gregg, Armiero, Marco, and Emmett, Robert. (2018) Future Remains. A Cabinet of Curiosities for the Anthropocene. Chicago: Chicago University press. Scott, James. (1998). Seeing Like State. How Certain Schemes to Improve the Human Condition Have Failed. New Haven: Yale University Press.
Sörlin, Sverker. (2018). Humanities of Transformation: From Crisis and Critique Towards the Emerging Integrative Humanities. “Research Evaluation” 27(4): 287-297.
Marco Armiero (1966), Storico dell'ambiente e political ecologist, è direttore dell'Environmental Humanities Laboratory del Royal Institute of Technology a Stoccolma e primo ricercatore presso l’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo del CNR.