Stefania Barca è senior researcher al Centro de Estudos Sociais…
Il testo è stato presentato in occasione del seminario Ecologie operaie, organizzato – il 9 marzo 2019 presso il Lido Pola di Bagnoli – da Urit (Unità di Ricerca sulle Topografie Sociali-Unisob), “La Camera Blu” (Rivista di Studi di Genere, Università degli Studi di Napoli “Federico Ii”) e Lido Pola.
Laura Conti e l’ecologia politica
L’ecologia politica è un modo di studiare l’ecologia a partire dalla società, assumendo la complessità del sociale come punto di osservazione. Si tratta di un campo di studi molto produttivo e in espansione a livello internazionale, a cui l’Italia ha contribuito con l’opera di diversi/e intellettuali militanti, tra cui Laura Conti, una scienziata e parlamentare del PCI, ex-partigiana, che fu attiva tra gli anni ’70 e ’90, autrice di vari libri tra cui Che cos’è l’ecologia. Capitale, lavoro, ambiente. A Laura Conti dobbiamo una delle prime se non la prima definizione del concetto di ecologia politica in Italia: lo studio di come i rapporti di potere e le disuguaglianze sociali influenzano il rapporto tra la società e il suo ambiente biofisico (o tra l’umano e le altre specie).
L’ecologia – spiegava Conti – è la scienza delle relazioni tra gli organismi viventi, tra cui gli esseri umani, e i loro ambiente biofisico, o anche tra una popolazione e il suo habitat. L’ecologia politica fa un ulteriore passo e dice che quello che distingue le popolazioni umane dalle altre specie animali è soprattutto un elemento: la politica. Nelle comunità umane l’ecologia è sempre anche politica, cioè riguarda le scelte, i valori, e i rapporti sociali.
Dunque per esempio, se vogliamo capire l’ecologia di una comunità operaia, dobbiamo partire dal sistema economico e sociale che regola la vita di questa comunità, il sistema industriale, e dunque la fabbrica, perché è quello che determina le relazioni tra la comunità operaia e il suo habitat. Ecco, questo è quello che io chiamo ecologia operaia: il sistema di relazioni tra una comunità operaia e il suo ambiente – un ambiente che è fortemente condizionato dalla presenza della fabbrica.
Ora, la storia ambientale e sociale ci ha mostrato che quello che caratterizza la popolazione operaia, dal punto di vista eco-politico, è il fatto che la sua sussistenza dipende dal salario industriale, cioè da un tipo di lavoro che è potenzialmente dannoso per la sua salute. Riproduzione sociale e riproduzione biologica entrano in contraddizione l’una con l’altra, e generano un dilemma: da una parte reddito, benessere economico, dall’altra salute, ambiente e benessere psicofisico. Questo dilemma è insolubile perché non c’è alcuna possibilità di scelta tra le due forme di benessere: lavoro contro salute è una partita impossibile da giocare, perché i giocatori appartengono a entrambe le squadre. L’unico modo per vincere è non giocare.
Produzione industriale e riproduzione sociale e ambientale
Per spiegare Che cos’è l’ecologia Laura Conti partiva dalla fabbrica, cioè dallo studio dell’ambiente di lavoro, delle condizioni di lavoro e di vita dentro questo ambiente, e da lì poi si espande verso l’esterno, verso la comunità operaia nel suo ambiente biofisico. Lo fa seguendo due flussi: quello degli operai, che fuori dalla fabbrica sono membri di una comunità con le sue relazioni familiari, affettive, e sociali, e dunque contribuiscono alla riproduzione sociale di questa comunità; e quelli delle sostanze inquinanti che attraversano aria, acqua, suolo, e che modificano l’ambiente locale e dunque i corpi. Questi due flussi, quello dei lavoratori e quello delle sostanze, ci mostrano come la fabbrica è un sistema aperto, e che non esiste una separazione rigida tra fabbrica e ambiente: questo è ancora più vero quando i lavoratori fanno parte della comunità locale, cioè vivono con le loro famiglie sul territorio stesso, e condividono la stessa aria e lo stesso ambiente biofisico di tutti gli altri. Solo che gli operai vivono anche l’ambiente di fabbrica, quindi sono doppiamente esposti al rischio.
Il problema centrale dell’ecologia operaia è dunque capire i meccanismi che generano la contraddizione ecologica tra la produzione industriale e la riproduzione sociale e ambientale. Cioè, come la produzione entra in conflitto con la riproduzione, il lavoro con la salute, l’ambiente, e la vita. Questa contraddizione, o conflitto, tra produzione e riproduzione non è un fatto naturale. In natura, gli organismi viventi lavorano – cioè spendono energia – per riprodursi, e non viceversa. Nella società capitalista invece avviene il contrario, cioè la riproduzione è subordinata alla produzione. Questo avviene per cause politiche, cioè il fatto che il sistema economico è strutturato in modo da attribuire maggior valore alla produzione che non alla riproduzione.
Insomma, le persone lavorano per mantenere il sistema economico e non viceversa. Questo genera quella che viene chiamata ingiustizia ambientale.
L’ingiustizia ambientale
L’ingiustizia ambientale è un concetto chiave dell’ecologia politica: significa che l’ecologia non è uguale per tutti. La tua posizione sociale (occupazione, reddito, istruzione = classe; ma anche il genere e il colore della pelle) determinano la tua posizione nel sistema delle relazioni ecologiche che è socialmente organizzato, cioè in pratica determinano quanto la tua salute, la tua famiglia, la tua comunità, il tuo territorio sono colpiti dall’inquinamento e dai costi ambientali. Questo principio viene da un sociologo afroamericano che si chiama Robert Bullard che è il fondatore di un campo di ricerca che studia l’ingiustizia ambientale che colpisce i neri e altre minoranze razziali negli USA, da cui appare chiaramente come la grande maggioranza delle strutture altamente inquinanti, come discariche, inceneritori, petrolchimici, si concentra nei territori abitati dalle comunità di colore, che sono anche le più colpite da una quantità di malattie respiratorie e tumori riconducibili in varia misura all’inquinamento.
Come dice Bullard: Not all people are polluted equal. L’inquinamento non é uguale per tutti.
Ma il razzismo strutturale è solo un aspetto dell’ingiustizia ambientale. La distribuzione diseguale dei costi ambientali, la loro concentrazione in alcuni territori, segue anche altre strade. Le più comuni sono la classe sociale, la composizione di classe di una comunità, il suo livello medio di reddito, il basso valore dei suoli, la marginalità rispetto ai centri del potere economico e politico, o la sua collocazione in aree ad elevata disoccupazione, che vengono classificate come aree da sviluppare. Questo sviluppo però, nel sistema capitalista, deve essere in funzione di priorità che non sono quelle della comunità locale, ma altre: la crescita del PIL, gli interessi degli investitori, o quelli del settore siderurgico nazionale. L’interesse della comunità locale diventa residuale rispetto a questi interessi superiori, e ne viene subordinato. Questa ingiustizia viene normalizzata attraverso la narrazione tossica dello sviluppo industriale: il tuo benessere dipende dal conseguimento degli obiettivi del sistema – sono collegati. Se non resisti ma ti adegui al sistema ne trarrai vantaggio. Le narrazioni tossiche sono potentissime, ma non invincibili: fino a quando esisteranno contro-narrazioni o narrazioni antitossiche che svelino l’inganno, ci sarà sempre la possibilità per una comunità di ribellarsi, e di liberarsi. Per esempio, quella della giustizia ambientale è una contro-narrazione molto potente, che sta generando resistenza e lotta in tutto il mondo.
Le lotte per la giustizia ambientale
Esistono diverse tipologie di lotte per la giustizia ambientale: contro l’installazione di infrastrutture per lo smaltimento dei rifiuti, inceneritori e discariche, contro le grandi opere, contro l’estrazione di risorse minerarie, contro le monoculture industriali e in difesa dell’agricoltura di sussistenza. L’ecologia operaia è affetta da un tipo specifico di ingiustizia ambientale, quella del ricatto occupazionale. Le lotte per la giustizia ambientale in un contesto operaio sono dunque lotte contro il ricatto occupazionale. Questo è presente anche in altri tipi di ingiustizia ambientale, ma come uno tra vari fattori, e mai quello determinante. Invece nel caso delle ecologie operaie, il ricatto occupazionale è centrale, cioè è il motivo principale per cui si genera la contraddizione tra produzione e riproduzione. La spiegazione è semplice, anche se ovviamente segnala un problema estremamente complesso: dove c’è ricatto non ci possono essere libertà di scelta, controllo democratico e rispetto delle regole.
Diventa quindi fondamentale, per uscire da questa situazione, capire quali sono le cause del ricatto occupazionale, andare cioè ad agire sulle cause per poter eliminare gli effetti. Secondo le mie ricerche su vari casi di ecologia operaia, le cause principali del ricatto occupazionale si possono dividere in due grandi gruppi: il primo possiamo chiamarlo colonialismo ambientale, o anche divisione coloniale del lavoro. Questo consiste nel fatto che le economie industriali si reggono sulla concentrazione di produzioni nocive per l’ambiente e la salute in determinate aree, che la letteratura chiama aree di sacrificio. La scelta della localizzazione delle nocività non è casuale ma sistemica, si basa cioè sulla considerazione di una serie di disuguaglianze economiche e sociali che rendono alcuni territori e i corpi che li abitano sacrificabili allo sviluppo industriale. Per capire la colonizzazione ambientale, come tutte le forme di colonizzazione, non basta però considerare i fattori strutturali, economici, ma bisogna considerare anche i meccanismi di interiorizzazione della differenza, che potremmo chiamare foucaultiani, cioè di auto-colonizzazione da parte delle stesse comunità che ne sono vittima, in quanto queste vengono indottrinate con l’idea che non ci sono alternative alla colonizzazione e che questa agisca in fondo per il loro bene.
Paradossalmente, però, questo secondo aspetto del colonialismo ambientale è anche il suo punto debole: vuol dire che le stesse comunità possono ad un certo punto rompere questo meccanismo di auto-colonizzazione, di subordinazione ad un modello coloniale, e quindi cominciare a far crollare l’impalcatura che regge l’ingiustizia ambientale.
Nel caso di Taranto, per esempio, questa rottura ha cominciato ad essere praticata, con molta fatica, ed ha portato alla formulazione di un rifiuto della monocoltura dell’acciaio che per la prima volta ha potuto essere espresso apertamente nella sfera pubblica, raccogliere consensi, entrare nel dibattito pubblico; e ciò ha portato anche all’emergere di proposte alternative. Insomma nella colonizzazione ambientale c’è un potere forte che agisce dall’esterno per colonizzare, ma c’è anche un contropotere che agisce dall’interno, e che può fare resistenza, e potenzialmente anche vincere.
La decolonizzazione però non può bastare, perché per far crollare l’ingiustizia ambientale bisogna attaccare anche il secondo gruppo di cause. Questo secondo gruppo possiamo chiamarlo divisione sociale del lavoro, che è in gran parte una divisione sessuale del lavoro, basata sulla subordinazione del lavoro riproduttivo, domestico e di cura, a quello cosiddetto produttivo – o meglio al lavoro industriale. La separazione tra i due consiste nella linea del valore: da un lato c’è il lavoro industriale salariato che produce reddito e profitto; a questo lavoro viene riconosciuto non soltanto valore economico ma anche sociale e politico, e dunque soggettività storica; dall’altra parte della linea del valore ci sono i soggetti della riproduzione sociale, generalmente le donne, o coloro che svolgono il lavoro di cura e di riproduzione sociale (istruzione, sanità, cultura, manutenzione ambientale etc). Anche quando produce reddito, questo lavoro viene culturalmente svalutato, conta di meno, è un lavoro secondario, subordinato, dipendente dal lavoro produttivo. È questo meccanismo che produce la svalutazione e la subordinazione sociale non soltanto delle donne, ma anche della salute e dell’ambiente, rendendoli soggetti a forme di violenza strutturale, sistemica. Ed è questo meccanismo che ha prodotto storicamente l’accettazione del ricatto occupazionale da parte delle comunità operaie – perché non sembrava esistere valore maggiore che quello prodotto dal lavoro industriale.
La coscienza ecologica
Ma l’ecologia operaia non è formata soltanto da produzione e riproduzione, ma anche da un terzo elemento, e cioè la coscienza ecologica. E qui è importante capire che la coscienza ecologica, così come quella sociale, non è la stessa per tutti, che ne esistono vari tipi – e dunque quella di una comunità operaia è una coscienza ecologica particolare, perché assume la condizione di classe operaia come il punto di partenza.
La coscienza ecologica è il modo come le persone percepiscono il loro rapporto con l’ambiente biofisico: questa percezione si basa in primo luogo sulla loro posizione sociale, il posto che queste persone occupano nello spazio e nella società, il loro lavoro e le attività che svolgono tutti i giorni.
La comunità operaia quindi ha una sua coscienza ecologica specifica, anche se spesso questa non trova modo di esprimersi, di essere condivisa, di diventare un piano di azione comune. Ma questa coscienza può diventare consapevolezza di essere vittime di una ingiustizia, e trasformarsi in azione collettiva, in mobilitazione politica, in resistenza e lotta per la giustizia ambientale. Nella storia del movimento operaio la coscienza ecologica si è formata intorno alla percezione della nocività industriale e nelle lotte contro questa nocività, che si sono sviluppate in un’epoca storica che ormai si è chiusa definitivamente, quella del boom economico italiano degli anni 60 e poi della conflittualità sindacale degli anni ’70. Queste lotte hanno prodotto lo statuto dei lavoratori e la riforma sanitaria nazionale, cioè sono state un momento fondamentale nello sviluppo di una legislazione che limitasse gli effetti nocivi della produzione industriale e che regolasse questa produzione secondo principi di salute pubblica e di salute ambientale. Le lotte per la giustizia ambientale di oggi, invece, si sono formate soprattutto al di fuori dei luoghi di lavoro, nella comunità. Ma questo non vuol dire che gli operai non ne facciano parte, in quanto membri della comunità e soggetti della sua riproduzione sociale.
Quello che ancora manca è l’unità tra i due tipi di coscienza operaia, i due tipi di lotta contro la nocività industriale: dentro e fuori la fabbrica. Da una parte le lotte per la sostenibilità del lavoro (sicurezza e prevenzione dentro la fabbrica, controllo operaio sulla sostenibilità del processo produttivo) e dall’altra le lotte per la sostenibilità ambientale e sociale (contro inquinamento di aria, acqua, suolo etc).
Questa unità permetterebbe di abbattere la divisione sociale del lavoro, e contrastare l’opposizione tra produzione e riproduzione e dunque la subordinazione di quest’ultima, prendendo finalmente atto del fatto che i lavoratori dell’industria sono anche cittadini, padri, figli, membri di una comunità e parte di un ecosistema.
La scelta del luogo dove ci troviamo oggi a parlare di ecologia operaia (la zona industriale di Bagnoli, alla periferia ovest di Napoli, dominata dall’ex-impianto Ilva) non è casuale. Quello dove ci troviamo è il territorio di una ex-comunità operaia, nel senso che la grande fabbrica che ha plasmato l’ecologia di questo territorio per decenni ora non c’è più. Eppure quella che vedremo è ancora, decisamente, una ecologia operaia, nel senso che è segnata da questa esperienza storica, che non riesce a venirne fuori ancora oggi – a più di vent’anni di distanza dalla dismissione. Quello che vedremo – lo scheletro della fabbrica e la sua presenza spettrale sul territorio attraverso i processi bio-fisici che essa ha modificato nel corso della sua storia e che continuano a modificarsi anche dopo la sua morte – e le storie di cui sentiremo parlare oggi tanto da Bagnoli quanto da Avellino – storie di vita, lavoro, e morte, ci mostreranno come l’ecologia operaia è una identità materiale, non soltanto sociale ma anche ambientale, incarnata sia nei territori che nei corpi.
Dunque il laboratorio di oggi vuole darci la possibilità di ragionare sull’ecologia operaia in concreto, a partire dall’osservazione dei luoghi e delle storie di due esperienze storiche: quella dell’ex-Ilva qui a Bagnoli, che conosceremo attraverso l’osservazione diretta guidati dai compagni del Lido Pola che conoscono bene questo territorio dove sono attivi con le lotte di cui ci racconteranno ormai da diversi anni, e quella dell’Isochimica di Avellino, che conosceremo oggi pomeriggio attraverso il film documentario Il silenzio della polvere, e le testimonianze dirette di alcuni/e dei/le protagonisti/e che hanno accettato di contribuire al nostro laboratorio venendo qui oggi, cosa di cui siamo loro molto grati. Queste due osservazioni – chiamiamole così, ci daranno la possibilità di interrogarci poi, attraverso il lavoro di gruppo, su cosa accomuna queste esperienze al di là delle diverse identità territoriali e sociali, di disegnare una mappa concettuale dell’ecologia operaia, e dunque di capire meglio in cosa ha consistito storicamente la specificità dell’esperienza operaia dell’ecologia.
Riferimenti
Armiero, Marco, Stefania Barca e Andrea Tappi (a cura di), “Primavere rumorose. Conflitti ambientali e lotte sociali”, in Zapruder: Storie in Movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale n.30 (2013)
Arruzza, Cinzia, Tithi Battacharya and Nancy Fraser. Femminismo per il 99%.
Barca, Stefania e Emanuele Leonardi. “Working-class ecology and union politics: a conceptual topology”. Globalizations 15:4 (2018), 487-503
Barca, Stefania. “Lavoro, corpo, ambiente. Laura Conti e le origini dell’ecologia politica in Italia” Ricerche Storiche, XLI-3 (2011)
Barca, Stefania. “Pane e veleno. Storie di ambientalismo operaio in Italia, 1968-1998”, Zapruder: Storie in Movimento. Rivista di Storia della Conflittualità Sociale n. 24 (2011)
Stefania Barca è senior researcher al Centro de Estudos Sociais dell’Università di Coimbra, dove insegna Ecologia Politica e coordina la Oficina de Ecologia e Sociedade (EcoSoc). È autrice di numerosi lavori in inglese, portoghese e italiano, e del libro Enclosing Water. Nature and Political Economy in a Mediterranean Valley, per il quale ha vinto il premio Turku di storia ambientale nel 2011. Da qualche anno studia il nesso tra ecologia e lavoro in prospettiva femminista e storico-materialista.