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L’ecodomìa del comune

L’ecodomìa del comune

Il testo prende spunto dal seminario intitolato La cura del comune organizzato – nell’ambito della programmazione del Laboratorio di studi Ecologie Politiche del Presente – dal Centro De Estudos Sociais – Oficina De Ecologia E Sociedade (Università di Coimbra) e dal Gruppo di Studio Pan (Paesaggio-Ambiente-Natura) il 4/5 gennaio 2019 presso l’Ex Asilo Filangieri e lo Scugnizzo liberato di Napoli. Il testo è stato successivamente pubblicato in «Quadranti – Rivista Internazionale di Filosofia Contemporanea», volume VI, n. 2, 2018

L’intervento fu dedicato all’amico Cesare di Transo – anche lui come l’autore dell’articolo – “abitante”  de l’ex Asilo Filangieri.

L’ecodomìa del comune riguarda l’arte del costruire insieme lo spazio comune delle relazioni e dei beni funzionali al pieno sviluppo della persona umana nel suo contesto ecologico. La difficoltà di esercitare quest’arte è data dal contesto politico, economico e sociale dominante, che tende a isolare gli individui e metterli in costante competizione fra loro.

Nei regimi democratici occidentali questo si traduce nell’erosione di quell’elemento plurale, qual è il demos, che è alla base del kratos. La forza/potere – il kratos – senza quella soggettività plurale che è il popolo sovrano – il demos – diviene un dispositivo di comando e controllo finalizzato a conservare lo stato di cose presente. Come costruire un’alternativa? Come rendere praticabile, qui ed ora, un altro mondo possibile? Come evitare che la logica che governa gli attuali sistemi politici ed economici determini anche le pratiche e il pensiero di coloro che fanno resistenza? Attraverso la riflessione di Isabelle Stengers, Philippe Pignarre e Ivan Illich si cerca di individuare le “figure” e gli strumenti utili per costruire un’alternativa possibile.

Premessa

Il mio esercizio in questo breve intervento sarà quello di condividere alcuni passaggi teorici tratti da due testi che ho trovato molto preziosi per riflettere su La cura del comune. Un tema che reputo coessenziale alla democrazia, considerata come esercizio della sovranità, ossia come la facoltà che una comunità politica si dà per decidere insieme delle condizioni – materiali e ideali – della democrazia stessa. La pratica della decisione, insieme alla decisione, caratterizza il regime politico in cui si vive, perché il decidere ha a che fare inevitabilmente con il potere.
Come sappiamo il potere è ambivalente, perché può essere inteso come potenza, ovvero come la forza e il potere che si esercita su altre persone o su qualcosa, oppure può essere vissuto come potere essere o detto in termini femministi come empowerment. La prima forma di potere implica il comando e il controllo, la seconda, invece, la relazione e la cura delle relazioni. In un regime di potenza la mia libertà finisce dove comincia la libertà altrui, in un sistema di empowerment la mia libertà comincia dove ha inizio la libertà di poter essere dell’altri esseri umani. Entrambe le opzioni sono attraversate da contraddizioni e conflitti, ma questa complessità dello stare insieme, del decidere insieme e dell’esercizio comune del potere è vissuta diversamente a secondo della prospettiva che noi adottiamo. La cura del comune – inteso come modo di produzione e riproduzione – e delle relazioni che si tessono intorno a ciò che è in-comune e, ancora, degli spazi in cui questi processi avvengono è a mio parere determinante per agire una critica ai modelli democratici esistenti.
L’esercizio che farò, come dicevo, è provare a riflettere intorno a questi temi utilizzando alcuni passaggi tratti, principalmente, dal libro Stregoneria Capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio di Isabelle Stengers e Philippe Pignarre (Stengers, Pignarre 2016) e, in conclusione, dalla presentazione di Ivan Illich al volume Il Potere di Abitare, ripresa integralmente da Franco La Cecla nel 2013 in un volume intitolato Ivan Illich e la sua eredità (La Cecla 2013).
Per rendermi più semplice l’argomentazione ho pensato di estrarre da questi testi alcune figure che ci faranno da guida in questo percorso. Non ho intenzione di essere esaustivo, né di definire percorsi obbligati. Vorrei piuttosto seguire delle tracce nella speranza che abbiano almeno la potenzialità di aprire l’immaginazione a delle possibili traiettorie.

Vittime di automatismi e parole che salvano (I e II figura)

Partirò da Stengers e Pignarre e la prima figura è quella delle vittime di automatismi. La loro tesi è la seguente: tutti e tutte noi siamo vittime di automatismi. Automatismi che vengono dall’ambiente e dal contesto in cui viviamo. Ambiente che nei paesi industrializzati è dominato dalla logica del capitale. Una logica che è incardinata ad una certa idea di razionalità. I cardini di questa razionalità sono, da una parte, una volontà costruita in vista di finalità trascendenti, cioè tutta proiettata aldilà della veridicità del fine stesso, per cui il fine giustifica sempre i mezzi; e, dall’altra, un’antropologia negativa che nelle dottrine politiche occidentali si traduce nel realismo politico, per cui l’umanità è essenzialmente, come direbbe Kant, un legno storto, o come direbbe Hobbes, siamo lupi fra i lupi. La conclusione è che per vincere/vivere in questo mondo feroce bisogna essere astuti come Ulisse, non a caso uno dei miti fondativi della razionalità occidentale.
Questi due presupposti a cui siamo stati formati fin dalla prima suzione di vita fanno scattare in noi disastrosi automatismi, specie quando pensiamo alla politica. Questo vuol dire che nelle nostre astuzie politiche, inconsapevolmente, pensando di aver colto la logica del capitale, di aver ingannato l’essere da un occhio solo, riproduciamo la stessa logica che diciamo di voler sovvertire.
Siamo stregati dalla logica del capitale, dalla sua intima razionalità. Questa riflessione di Stengers e Pignarre la trovo illuminante. Nella premessa al loro libro dicono una cosa molto interessante:

si tratterà sempre più nel prossimo futuro, di far esistere: far esistere noi stessi, in primo luogo, scegliere (o meglio, sentire) che tipo di umani vogliamo essere e creare relazioni che permettano questo divenire, questa apertura a un possibile che nel non esserci ancora, mette nostalgia (Stengers, Pignarre 2016).

Quante volte ci è capitato di sentire nostalgia per quello che potremmo essere, per quello che potrebbe essere. C’è da notare, nella prima parte di questa breve citazione, che questo preparare ciò che vogliamo essere, questo far esistere noi stessi, non è possibile da soli. Vanno tessute con cura relazioni che permettano di far emergere quello che potremmo essere.
Ma che cosa comporta questa pratica di connessione, quest’opera da ricamatrici? Per rispondere utilizzerò la figura delle parole che salvano. Stengers e Pignarre non usano propriamente questa espressione ma sostengono che la creazione di relazioni comporta un’attenzione certosina alle pratiche, innanzitutto alla pratica della parola. Prestare l’ascolto alla frasi che utilizziamo, frasi che vanno «costruite in modo da non ricattare chi le legge, da non imporre un’adesione preventiva» (Stengers, Pignarre 2016) alle nostre tesi. Imparare a fare attenzione è di per sé una pratica, un esercizio, un modo di resistere agli automatismi. Se vogliamo essere tra coloro «secondo cui “prendere il potere” significa cambiare il rapporto con quel medesimo potere che si tratta di prendere – e cioè cambiare la definizione stessa di “potere”» (Stengers, Pignarre 2016), allora dobbiamo prestare ascolto innanzitutto alle cose che ci diciamo. Perché ciò che si dice è in stretta relazione con quello che pensiamo e con quello che facciamo. E vorrei qui ricordare, innanzitutto a me stesso, che si dice in tanti modi, si può parlare con gli occhi, con l’espressione del viso e sopratutto con il corpo – il corpo parla e il corpo non mente mai.

Persone che pensano e ambienti ecopatologici (III e IV figura)

Dunque, da come si può intuire, l’essere vittima di automatismi ha molte implicazioni. Se pensiamo ad esempio alle dinamiche relazionali di gruppo e ai tanti disaccordi che queste provocano, quante volte a chi non è d’accordo viene imposto di fare una proposta alternativa, perché solo così ci si può fare carico della responsabilità di aver interrotto con il proprio dissenso l’atto di decisione dei più. La logica del aut-aut in questi casi vince e chi non è d’accordo tace o recide la relazione. Molto spesso nelle dinamiche collettive se dissenti e non hai contestualmente la proposta alternativa passi direttamente nel blocco opposto, quello del traditore, di colui che vuol rompere, che vuole spaccare l’unità.
Ecco perché l’invito di Stengers e Pignarre a fare attenzione alla frasi che costruiamo e a liberarle dalla volontà di volere che chi ci ascolta assuma un’adesione preventiva è interessante.
E qui veniamo alla terza figura. Le frasi che pronunciamo, le azioni che mettiamo in campo, le relazioni che creiamo devono, piuttosto, obbligarci a pensare. Abbiamo bisogno di persone che pensino quando si discute e che stiano attente a non praticare un’adesione preventiva alla teoria di turno. Stengers e Pignarre a questo proposito sostengono:

Aver bisogno che le persone pensino (come scrive Deleuze) implica, innanzi tutto, fare attenzione alle parole che permettono, a chi suppone di pensare, di fare a meno del pensiero degli altri (Stengers, Pignarre 2016).

Questo ci consente di evitare di costruire quella che ho individuato come la quarta figura, ovvero, gli ambienti ecopatologici. Che cos’è un ambiente ecopotalogico? È un ambiente in cui chi parla lo fa per convincere la platea della propria tesi. L’uditorio, l’assemblea, una relazione diventa lo spazio apostolico della conversione. La retorica della persuasione, quasi sempre alimentata dall’urgenza e dalla paura per qualcosa di irreparabile che sta per accadere, ha come obiettivo quello di convincere chi è in ascolto, di compattare la massa degli astanti, di tenere unito il gruppo, di tenere insieme una relazione. Non si cerca il pensiero, il confronto, ma l’adesione, lo schieramento, la maggioranza. Chi ha solo parole per catturare l’adesione vedrà il suo ambiente solo in termini missionari, ecopatologici: portare agli altri ciò che a loro manca, il che vuol dire in termini politici, dare la linea, dare una teoria, dare un’organizzazione.
Tutto questo, affermano Stengers e Pignarre, crea una violenza interna ai processi collettivi che li annienta. Un’ambiente ecopatologico ben presto è lacerato da fazioni, separazioni nette, da violenza. In un ambiente simile viene meno quella tensione continuamente creatrice propria di coloro che pensano, obiettano, domandano. In un’ambiente ecopatologico vige un “pensiero di maggioranza”.

Il pensiero di maggioranza e pensiero di minoranza (V e VI figura)

A proposito del “pensiero di maggioranza”, che è la quinta figura che ho scelto, Stengers e Pignarre fanno riferimento alla riflessione di Deleuze e Guattari.

Maggioranza è ogni pensiero, ogni posizione che si stimi “normale” e che definisca ogni divergenza come scarto rispetto alla norma, e cioè come qualcosa che dev’essere spiegato. Minoritari sono i gruppi a cui non verrebbe mai il desiderio, e neanche l’idea, che tutti fossero come loro. Diremo allora che è “maggioritario” ogni pensiero che si definisce come valido “di diritto”, indipendentemente dal fatto che le persone che concerne siano capaci di pensare […]. La maggioranza qui non ha a che fare col numero. Un gruppo può essere minuscolo e maggioritario, basta che i temi che propone siano definiti come validi “di diritto” per tutti […] (Stengers, Pignarre 2016).

In questa prospettiva un gruppo che pratica, all’opposto, il “pensiero di minoranza” – la sesta nostra figura – neanche si sogna di diventare maggioranza, e questo non perché coltiva egoisticamente la sua particolarità, «ma perché coloro che a questa minoranza appartengono conoscono il legame tra appartenente e divenire». Questo è un passaggio determinante, perché sentirsi parte di un gruppo senza costruire una gabbia identitaria che arresti la crescita e lo sviluppo personale e il proliferare delle differenze è la sfida più grande.
Scrivono ancora Stengers e Pignarre «l’esperienza del divenire non porta con sé nessun sogno di generalizzazione». Il “pensiero di minoranza” pensa agli altri sempre come altre minoranze «con le quai saranno possibili connessioni, incontri e alleanze che non omogeneizzano l’eterogeneo, ma danno a ciascuno delle nuove potenze per agire e immaginare» (Stengers, Pignarre 2016). A conclusione di questa riflessione l’autrice sostiene che «i soli enunciati generali che possono essere sostenuti riguardano ciò che ci avvelena» (Stengers, Pignarre 2016). Occorre trovare rimedi ai pensieri tossici, alle teorie tossiche, alle pratiche tossiche, bisogna cioè evitare di ammalare irrimediabilmente la nostra capacità di aprire all’immaginario creativo, alla potenza politica creatrice. Quest’opera di salvataggio è una di quelle pratiche di attenzione che salvano, nella consapevolezza che non esistono corpi sociali immunizzati e immunizzabili e che il processo di cura ha a che fare con il divenire e la trasformazione costante.

I lanciatori di sonda e gli utilizzatori-sperimentatori (VII e VIII figura)

Per evitare, allora, la tossicità degli “ambienti ecopatologici” e dei “pensieri di maggioranza” abbiamo bisogno di figure diverse da quelle che fin’ora hanno caratterizzato la vita politica – i leaders, i capitani solitari e tutti coloro che guidano verso le mete future e trascendenti della rivoluzione. Dicono Stengers e Pignarre, abbiamo bisogno dei “lanciatori di sonda”. Chi sono costoro, in che consiste questa settima figura? Essi sono coloro che in questa pratica a venire – che mette nostalgia perché ancora non è – hanno il coraggio di imparare pazientemente a sentire con tutto il loro essere e di essere presenti.

Anche se stanno sul davanti di una nave, i lanciatori di sonda non guardano lontano. Non possono dettare gli scopi, né tantomeno sceglierli. Il loro compito, la loro responsabilità, ciò per cui vengono utilizzati sono le rapide su cui si ci sfascia, gli scogli contro cui ci si urta, i banchi di sabbia sui quali ci si arena. La loro conoscenza viene dall’esperienza di un passato che racconta i pericoli dei fiumi, dei loro andamenti ingannevoli, dei loro richiami pieni di trappole. La questione dell’urgenza si presenta al lanciatore di sonda come a chiunque altro, ma il suo problema specifico è (e deve essere): “si può passare di qui? E se sì, come?” (Stengers, Pignarre 2016).

Essere lanciatore di sonda significa essere qui ed ora, cercare di evitare i pericoli che avvelenano gli spazi dell’immaginazione creativa e muoversi passo dopo passo.
Questo implica un’altra figura (la nostra ottava figura): quella degli utilizzatori-sperimentatori. Negli spazi dove si alimenta la vita democratica e una socialità non competitiva ed escludente diviene fondamentale riprendere la figura potente degli usi e degli utilizzatori che sono sempre sperimentatori perché la pratica dell’uso, se non è abuso, è sperimentale per sua definizione in quanto apre alla possibilità dell’ignoto e dell’imprevedibile – come direbbe Butler, ci rende vulnerabili, cioè, sempre esposti all’incontro con l’altro, nel bene e nel male, e questa è una forza perché la sfida è restare aperti all’altro e avere cura di quest’apertura, piuttosto che attivare continuamente meccanismi di difesa e di chiusura (Butler 2017).
Gli utilizzatori, continuano Stengers e Pignarre, «possono essere pensati come sperimentazioni, apprendistati. E tutti hanno bisogno che ciascuno apprenda. Il che significa anche che ciascuno di essi ha bisogno di riconoscersi e di essere riconosciuto come qualcosa il cui apprendistato ha valore per tutti. […] L’utilizzatore è definito dall’uso, un termine assai interessante dal momento che non può essere ridotto alla mera utilità. Un oggetto è definito dalla sua utilità, mentre una cosa può entrare in molti usi differenti – e nessun singolo utilizzatore, in quanto tale, può pretendere di poterla definire. Ogni uso è, di fatto, minoritario» (Stengers, Pignarre 2016).

Staffette e itineranti (IX e X figura)

Quando ho incontrato queste pagine mi sono sentito disorientato. Da dove partire, come agire evitando di essere nostro malgrado degli apostoli di verità presunte? Lanciatori di sonde, utilizzatori-sperimentatori. Qual’è la conseguenza di tutto questo? Come evitare che lo sguardo prospettico annienti quello che ci accade qui e ora? Come raccontare la propria esperienza di lotta politica senza cadere nella trappola della propaganda politica?
Una conseguenza della riflessione di Stengers e Pignarre è che dovremmo prestare più attenzione alla pratica femminista del “pensiero situato”. Bisogna saper stare sul posto, bisogna saper pensare in un ambiente, essere ecologici, bisogna essere capaci di corrispondere all’ambiente che si ha intorno. Non imporre una teoria ma praticare una conoscenza, un sapere, che si può solo trasmettere mediante staffette, essendo itineranti, cioè andando a vedere e conoscere le altre sperimentazioni, incontrarle, confrontarsi con le altre esperienze di resistenza e di resilienza. Queste due figure possono permetterci di elaborare insieme ricette che possono innanzitutto funzionare, essere utili a evitare i dirupi. Creare connessione tra esperienze comuni. Costruire alleanze. Queste sono le uniche generalizzazioni che possiamo permetterci: saperi che ci obbligano a pensare, a tessere relazioni, a ricamare immaginari possibili e concreti; saperi che ci salvano dalla violenza silenziosa di una razionalità che separa, esclude e annienta le differenza; saperi che ci facciano costruire spazi di libertà senza perdere la gentilezza, la grazia, la bellezza.

Gli interstizi (XI figura)

Un’ultima considerazione su questi passaggi così ripidi e disorientanti. Dove abitano tutte queste figure? I lanciatori di sonda, gli utilizzatori-sperimentatori, le staffette, gli itineranti, in che tipo di spazio operano, se la vita democratica dei paesi occidentali è tutta presa dalla logica del capitale e appare infrangibile?
Stengers e Pignarre ritengono che sono gli interstizi i luoghi in cui più frequentemente sono all’opera queste figure. Gli interstizi, la nostra penultima figura, sono tutte quelle faglie, tutte quelle fratture o contraddizioni che produce un sistema. Molte delle realtà politiche più interessanti si sviluppano ai margini, fra le macerie, fra ciò che resta, fra le cose abbandonate e dimenticate. Fabbriche abbandonate, residui di aree rurali scampate all’urbanizzazione, immobili resi fatiscenti dall’incuria, terre incolte, le aree interne di vaste regioni iperurbanizzate, sono questi alcuni dei luoghi in cui migliaia di persone quotidianamente costruiscono un altro mondo possibile. Noi stiamo in un sistema di produzione basato sullo spreco e sull’estrazione violenta di risorse quali la forza lavoro, energia, materie prime e che crea continuamente faglie, spazi e corpi marginali, rifiutati. Ebbene da dentro queste faglie è possibile lavorare il corpo apparentemente compatto del sistema in cui siamo, lavorarlo fino a creparlo.
Tutte le figure che abbiamo incontrato si muovono dentro gli interstizi, si fanno spazio, e fanno spazio tra le pieghe di un corpo che solo in apparenza sembra impenetrabile.
Donna Harwey parla di rifugi, luoghi in cui sono operanti forme di vita che generano biodiversità, microrganismi che lavorano la terra, batteri, lombrichi, radici, e così via. Allo stesso modo negli interstizi-rifugio fanno alleanza tutte quelle soggettività subalterne, marginalizzate, che pazientemente e ostinatamente costruiscono l’alternativa. Un’alternativa qui ed ora, che non aspetta il domani. Un’alternativa che si costruire tessendo relazioni.
Prima di passare brevemente alle fulminee riflessioni di Illich, vorrei riportare il testo di Stengers e Pignarre sugli interstizi, che mi pare essere una buona sintesi di quanto fin’ora argomentato.

L’interstizio non si definisce né contro, né in rapporto al blocco di materiale al quale comunque appartiene. Crea le sua proprie dimensioni a partire dai processi concreti che gli conferiscono la sua consistenza e la sua portata, l’ambiente che abita e quel che può determinare. Non sappiamo cosa può un interstizio, salvo il fatto che il suo concetto richiama la molteplicità. […] L’interstizio non risponde ma suscita nuove domande. E queste domande non hanno una risposta generale, indipendentemente dal processo concreto che definisce il blocco di materiale come ambiente per gli interstizi. È questa indecidibilità a interessarci, perché si oppone ai giudizi a priori che smembrano le dinamiche minoritarie a colpi di dilemmi insolubili: “o…o”. Porre simili domande significa imparare a “pensare attraverso l’ambiente” (Stengers, Pignarre 2016).

L’uso collettivo (XII figura).

Vorrei chiudere con un ultima considerazione sugli utilizzatori. Questa figura implica la categoria degli usi, con i quali nel contesto giuridico occidentale quasi ovunque si intende gli usi collettivi. Quest’ultima figura è importante perché gli usi collettivi dalla prima modernità si sono presentati come un potente dispositivo di immaginazione creativa. Prendo in prestito una considerazione che l’antropologo La Cecla fa nel suo libro Contro l’urbanistica. Parlando dell’esperienza turca e della dura repressione che è seguita all’occupazione del Gezi Park, in cui semplicemente migliaia di persone stavano in piedi nello spazio pubblico – leggendo, parlando, passeggiando – violando così l’ordine di non assembrarsi, egli constata che ciò che fa impazzire il tiranno è

il non poter sopportare che i cittadini “usino” la città e non la consumino soltanto. È l’imprevedibilità dell’uso che turba i vecchi e i nuovi tiranni (La Cecla 2015:9).

Ma gli usi collettivi hanno qualcosa di ancora più radicale, oltre e insieme all’essere imprevedibili. Essi sono strettamente legati all’atto dell’abitare, in quanto fonte germinativa dell’abitare. L’abitare da solo, se non è contrazione nella vita quotidiana dello spazio privato e della cellula residenziale, è di per se una forma di resistenza politica.
Ma in cosa consiste quest’abitare? A questo punto ci viene in soccorso il testo di Illich a cui ho fatto prima riferimento: l’uso è strettamente legato all’abitare perché l’uso dispone.
Illich fa un’esempio molto bello che è il nido dell’uccello. Questo è fatto raccogliendo pezzi di legno e rametti dall’ambiente circostante in cui si trova, creando in tal modo uno spazio che diventa il suo luogo di vita, diventa il suo luogo produttivo e riproduttivo. La ripresa degli usi civici da parte di comunità in lotta sul finire degli anni Settanta, secondo Illich, va in questa direzione; si muove lungo il solco tracciato da un’antica tradizione in cui la pratica dell’abitare e del curare lo spazio di vita prevaleva sull’idea predatoria del prendere possesso esclusivo dello spazio e delle risorse utili al sostentamento e allo sviluppo della persona umana.

Quando in questa nostra tarda età del cemento armato – scrive – la gente riprende gli usi civici spesso è molto difficile incontrare le parole con le quali si può dire quello che si fa. Questa è la grande difficoltà. È quindi necessario rimontare al passato remoto per trovare le parole che nettamente indichino l’azione conviviale. Perché la ripresa degli usi civici inevitabilmente spezza il vetro, l’acciaio e il cemento nel quale lo sguardo, la tecnica e la legge del mondo classico hanno trovato il loro mausoleo; le parole del passato più prossimo, le parole del periodo classico non sono in armonia con quello che si vuole dire. Bisogna saper ascoltare le risonanze basse che vibrino in armonia con questa riconquista dell’uso civico – e forse la parola greca oikodomìa è una di quelle (Illich 2013:46-47).

È proprio questo termine che Illich recupera da Aristotele che che qui voglio utilizzare per chiarire la potenza germinativa degli usi collettivi. Oikodomìa è formata da due radici òikos casa – nel senso materiale del termine, cioè si fa riferimento all’aspetto fisico della casa – e domeìn. È su questo secondo termine che Ivan Illich invita a porre l’attenzione. Innanzitutto perché permette una valida alternativa al nesso òikos-nomìa. Non si tratta di amministrare o gestire l’oikos. Non è questo l’elemento germinativo degli usi collettivi. Piuttosto è il domèin che fa dell’òikos uno spazio non appropriativo, non esclusivo. Va però chiarito che la radice domèin non equivale a domus, che notoriamente significa “dominata”, da un dominus e una domina che domano la casa. Illich sostiene che domeìn ha un altro significato che si è perso nel tempo che vale la pena recuperare. Domèin non significa dominare ma saper costruire. Oikodomeìn/ecodomia: saper costruire la casa, l’arte del ben costruire la casa. L’espressione è recuperata dall’Etica Nicomachea, quando Aristotele scrive:

eu oikodomein agathoi oikodòmoi èsontai/Il ben costruire fa il buon costruttore (Etica Nicomachea, II, 10-11).

Ecodomìa, allora, diventa una categoria utilissima perché ci permette di cogliere negli usi collettivi qualcosa di originario che caratterizza lo spazio della cura per eccellenza. È l’essere degli usi spazio originario e germinativo che ne fa negli ordinamenti occidentali, quasi ovunque, fonte del diritto (Capone 2016). La pratica del ben costruire la casa, non è intesa come spazio appropriativo, ma piuttosto la casa è pensata come il luogo dell’abitare, come lo spazio, cioè, dove innanzitutto è operante una pratica di connessione, un’azione di convivialità. Dalla fine dello scorso secolo gli usi collettivi sono ripresi in molti paesi. Penso al caso Zapatista in Messico e all’esperienza della difesa dell’ejido, il podere collettivo; oppure al Brasile in cui a livello costituzionale è stato riconosciuto il diritto delle comunità native all’uso collettivo delle terre, tradizionalmente da loro abitate; o, infine, il caso italiano, in cui gli usi collettivi sono stati pensati e praticati in area urbana – penso in modo particolare al caso napoletano, che mi è più familiare.
Concludo ricordando un altro grande filosofo, Castoriadis, e alla sua riflessione sull’autonomia:

lo spazio della casa, lo spazio del domeìn e dell òikos, è lo spazio dell’autonomia, ma questa non può essere pensata come un’istituzione della chiusura; l’autonomia, che ci permette di lavorare negli interstizi, come ci diceva Castoriadis, è l’istituzione dell’apertura. L’autonomia istituisce l’apertura. E questo restare aperti, è la cura della vulnerabilità a cui questa apertura ci consegna la sfida più grande quando costruiamo il comune, inteso come modo di produzione e riproduzione e come spazio di cose-in-comune.

Tutto l’armamentario teorico che noi abbiamo ricevuto in eredità purtroppo pare non essere di grande aiuto per procedere in questa direzione, se non accettiamo di compiere un intenso lavoro reinterpretativo. La mia fatica nella comprensione di questi testi deriva dalla mia formazione culturale e politica che è tutta dentro il pensiero moderno, tutta dentro una razionalità violenta che si è costruita a colpi di tragiche esclusioni. Il mio auspicio è che questa riflessione possa aprire per lo meno un confronto sulle pratiche vive nel mondo di ecodomìa e da lì provare a praticare, qui ed ora, un altro mondo possibile.

Bibliografia dei testi citati

Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari 1999.
Butler Judith, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017.
Capone Nicola, Del diritto d’uso civico e collettivo dei beni destinati al godimento dei diritti fondamentali, in «Politica del diritto», Fascicolo 4, dicembre, il Mulino, Bologna 2016.
Illich Ivan, Una lettera di Ivan, in Franco La Cecla, Ivan Illich e la sua eredità, Medusa, Milano 2013.
Stengers Isabelle, Pignarre Philippe, Stregoneria Capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio, Ipoc, Milano 2016.

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