Il laboratorio di Ecologie Politiche del Presente è uno spazio…
In occasione della presentazione del libro di Nicole Shukin “Capitale animale. Biopolitica e rendering“, Tamu edizioni (Napoli 2023), che si terrà a Napoli presso la libreria Tamu, condividiamo un estratto del libro dal capitolo Biomobilità, redatto a cura di Federica Timeto.
Razzializzazione della malattia
Negli anni in cui a New York la macellazione veniva allontanata dallo spazio urbano, in India lə bracciantə raccoglievano resti di animali, principalmente ossa e cartilagini, per esportarli in Gran Bretagna dove venivano impiegati principalmente come mangime per il bestiame.
La raccolta di scarti animali in India, nella seconda metà del 20° secolo, costituiva solo uno dei segmenti materiali delle catene globali (assemblaggio di natura e lavoro) che supportavano il capitalismo delle monocolture di massa del bestiame.
Eppure, è questo segmento “etnico” della catena materiale del capitale animale a essere isolato e segnalato come patologico nel settembre 2005, quando due scienziatə britannicə, Nancy e Alan Colchester, pubblicano sulla prestigiosa rivista medica «The Lancet» un articolo che fa risalire l’epidemia di mucca pazza in Gran Bretagna alla raccolta di ossa e scarti nel subcontinente indiano. Lə Colchester ipotizzano che i resti di cadaveri umani, galleggianti lungo il Gange dopo i funerali indù – “cadaveri infetti”, secondo le loro parole, portatori della variante umana della mucca pazza [1] –, dagli anni ’50 agli anni ’70 siano andati indiscriminatamente mescolandosi a carni e ossa animali per essere poi raccolti per l’esportazione in Gran Bretagna. La loro idea sfida l’opinione scientifica generale secondo cui la malattia della mucca pazza è provocata dalla pratica del “cannibalismo animale”, ossia dalla pratica agroindustriale di somministrare al bestiame resti di ruminanti. Secondo lə Colchester sono state le “carni etniche”, mescolate ai resti animali poi esportati in Gran Bretagna, a infettare i bovini europei, ingrassati per il mercato con cibo altamente proteico.
Gli scomodi limiti del multiculturalismo rischiano di venir scoperchiati da quel che lə Colchester ammettono essere ancora una semplice ipotesi scientifica; eppure esiste la virulenta possibilità di leggere la loro versione dell’origine del morbo della mucca pazza come metafora dell’infezione dell’Europa da parte di altre etnie. […] L’ipotesi scientifica deə Colchester assolve inoltre «il mercato» dalla patologia della mucca pazza, collegando in modo razzista la malattia a ritualità etniche dipinte a tinte fosche e ai miasmi insalubri del Gange [2].
Moltə teoricə del multiculturalismo hanno notato che, assieme agli interventi di chirurgia genitale femminile, le pratiche funerarie indù del sati (l’autoimmolazione rituale delle vedove) hanno costituito un limite insuperabile alla comprensione liberale. Con le parole con cui Elizabeth Povinelli descriveva le difficoltà del multiculturalismo australiano a tollerare la differenza indigena, «per quanto eroica si faccia la retorica illuminista della comprensione e del riconoscimento, i ‘loro modi’ non smettono mai di farci stare male» [3].
Nel contesto del traffico globale di materiale animale, l’immolazione delle vedove come limite dell’empatia multiculturalista e la malattia della mucca pazza come limite della zoofilia si sovrappongono nell’impressione irriflessa che facciano “stare male”.
L’intolleranza razzista riemerge come risposta materica e viscerale, apparentemente “preideologica”, e quindi ammissibile, all’eccessiva alterità di cultura e natura [4].
Il panico suscitato dalla mucca pazza, dall’Aids, dalla Sars e più recentemente dall’influenza aviaria è dato dal fatto che si tratta, in tutti questi casi, di zoonosi: malattie in grado di superare il confine di specie tra animali e umani. La fissazione sulle malattie zoonotiche negli ultimi decenni del 20° secolo e nel primo decennio del 21° marca l’intimità umano-animale come uno dei luoghi più fragili – ideologicamente e materialmente – della postmodernità, poiché i confini un tempo chiari che separavano gli umani dalle altre specie vanno ormai disintegrandosi, sul piano materiale e su quello dell’immaginario. […]
Prima di continuare, permettetemi di ribadire che il mio scopo non è quello di scommettere sul fatto che la pandemia sia una minaccia vuota invece che reale, né di trattarne con leggerezza la possibile occorrenza. Piuttosto, quel che mi preoccupa è la gravità dei suoi effetti anche quando esiste come sola virtualità. In gioco c’è la forza della speculazione sulle pandemie, capace di infettare soggetti come me – benintenzionatə, bianchə, di mentalità progressista, appartenenti alla classe media, che vivono in relativa sicurezza in sacche benestanti del globo –, instillando la paura per la propria sopravvivenza, per quella dei parenti più stretti e, per estensione, per quella della “famiglia dell’uomo”.
Quale motivo più convincente della paura per la “sopravvivenza della specie umana” potrebbe giustificare l’intolleranza crescente nei confronti dei pericolosi intrecci tra gruppi etnici e animali? [5]
[…]
Biocomunicabilità
Charles L. Briggs ha elaborato il neologismo «biocomunicabilità» per attirare l’attenzione sull’«economia politica della comunicabilità», ossia sulla questione di chi possiede o meno il potere istituzionale e il capitale simbolico (oltre che materiale) per comunicare con autorevolezza il sapere biomedico sulla malattia [6].
La razzializzazione della malattia opera, suggerisce Briggs, non soltanto entro la dimensione contenutistica del discorso pandemico, ma anche nella politica economica della comunicazione della malattia, che identifica alcuni soggetti come “esperti”, i soli in grado di trasmettere conoscenze apparentemente trasparenti sulle origini e sui focolai della malattia, e altri come vittime ignoranti, legate a geografie culturali dipinte sia come mere destinatarie della conoscenza sia come naturalmente inclini alle infezioni. «[…]
Seguendo Foucault, Briggs considera la biocomunicabilità produttiva nella misura in cui i discorsi sulle malattie «aiutano a creare i pubblici a cui intendono rivolgersi», il che, nel caso dell’Oms, comporta la costituzione di una sfera pubblica globale [7].
Inoltre, la biocomunicabilità allontana l’attenzione dalle condizioni politiche che rendono alcune regioni del globo più vulnerabili all’insorgenza di malattie rispetto ad altre (attraverso regimi neocoloniali di capitale, disparità strutturali nell’assistenza sanitaria e così via), dando adito alla credenza diffusa secondo cui i microbi insorgono spontaneamente in alcune popolazioni (solitamente non bianche) e non in altre: nella sfera pubblica globale creata dalla grammatica pandemica «che i ‘loro’ corpi siano malati sembra naturale […]. Qui risiede l’enorme ritorno, per la globalizzazione neoliberale, del produrre disuguaglianze con l’aiuto della biocomunicazione», sostiene Briggs, perché «questa mossa distoglie l’attenzione dai modelli globali di salute e di economia politica, e da come i ‘perdenti’ nelle disuguaglianze sanitarie diventino apparentemente intrappolati nella cultura» [8].
La biocomunicabilità torna a più riprese a rappresentare la provincia cinese del Guangdong come terreno fertile per le zoonosi, impugnando significativamente tutto un immaginario del surplus di intimità interspecie della regione che, agli occhi dell’Occidente, diventa immediatamente commistione “malata” di carne umana e animale. Questo è il rovescio della medaglia dell’intimità umano-animale feticizzata nel museo nomade. […]
Nel Guangdong, come ribadisce Mike Davis, «una straordinaria concentrazione di pollame […] coesiste con alte densità umane […]. Il Guangdong è anche un enorme mercato di selvaggina», osserva, e aggiunge che «la predilezione dei cinesi per gli animali esotici deriva da antiche credenze omeopatiche; il che ne rende la domanda inevitabile» [9].
In effetti, i wet market asiatici – mercati che vendono pollame vivo e talvolta animali selvatici – vengono razzialmente patologizzati come focolai zoonotici nei discorsi sulla pandemia. Essi offendono profondamente la sensibilità occidentale a causa del consumo apparentemente superstizioso e irrazionale di animali esotici e in via di estinzione di cui fanno commercio. La stessa affermazione di Davis per cui questo consumo è guidato da credenze “antiche”, ed è perciò anche “inevitabile”, rischia di confinare l’idea del consumo in Cina a una dimensione superstiziosa e irrimediabilmente tradizionalista. Come le storie sull’origine della Sars riguardavano una “predilezione” tutta asiatica per il consumo di zibetti ed evocavano in Occidente le peggiori immagini della loro preparazione e del loro consumo, nel caso dell’influenza aviaria sono ancora una volta i gruppi etnici che vivono a stretto contatto con gli animali che mangiano a venire identificati come la fonte primaria della malattia [10].
Mei Zhan osserva come i discorsi comuni e quelli scientifici sull’epidemia di Sars del 2003 fossero intrisi di stereotipi orientalisti sul consumo viscerale, stereotipi che evocavano una «continuità corporea esotizzata tra l’animale selvatico e i cinesi che lo consumano direttamente» [11].
ScriveZhan:
«I giornali e i siti web europei, nordamericani e cinesi erano zeppi di narrazioni che collegavano l’‘antica tradizione’ di mangiare animali selvatici alla Sars. Questi ritratti sensazionalistici ritraevano intrecci peculiari tra corpi umani e animali e soprattutto la fatale sporcizia di questi stessi intrecci» [12]. Accostare lə cinesi al consumo istintivo di animali “selvatici” produce l’immagine di «una cultura cinese tradizionale, esotica e fuori sincrono rispetto al mondo cosmopolita». Come sostiene Zhan, tuttavia, «è proprio attraverso gli incontri generati dai progetti transnazionali e dai processi [neoliberali] di commercializzazione […] che tale immaginario si acuisce e prende una forma così viscerale» [13]. Piuttosto che indice di una soggettività atavica rinchiusa nella tradizione, sostiene Zhan, il consumo “istintuale” attribuito aə cinesi nei discorsi sulla Sars richiede di scomporre le narrazioni opposte del tradizionale e del moderno, per rintracciare il modo in cui la soggettività neoliberale si ricostituisce in Cina attraverso forme di consumo eterogenee e contestate. Tenendo a mente la sovrapposizione evidenziata da Davis di wet market, “antiche credenze omeopatiche” e domanda “inevitabile” di carne selvatica che compone il ritratto di futuri o imminenti focolai pandemici, l’analisi di Zhan dei discorsi sulla Sars diventa ancora più istruttiva.
L’autrice sostiene che «mentre identificavano nell’antica e visceralizzata tradizione epicurea della Cina la ‘vera origine’ dell’epidemia di Sars, i mass media e le rappresentazioni scientifiche non esitavano a localizzare le varie narrazioni dell’eccesso nella sfera del mercato e del consumo di massa, non esattamente emblemi dell’‘antica cultura cinese’, ma esito delle recenti trasformazioni economiche, sociali e politiche avvenute in Cina».
Riprendendo l’argomento per cui il consumo “eccessivo” è apparso nella Cina post- Mao (in parte come risposta alla “carenza” dell’era Mao e in parte a motivo della “commercializzazione su larga scala”), Zhan osserva inoltre che, piuttosto che tradizionali, «queste pratiche viscerali di consumo nella Cina odierna sono strettamente legate all’emersione di una classe media urbana» [14]. L’argomentazione di Zhan va a rafforzare l’affermazione di Žižek secondo cui l’ideologia multiculturalista celebra la differenza delle culture, come delle cucine “etniche”, a condizione che vengano svuotate della loro sostanza, del loro nocciolo di jouissance. È la visceralizzazione del consumo, suggerisce, che lega razzialmente lə asiaticə alla zoonosi e a forme di alterità “malata”, che non possono essere digerite dal soggetto universale protetto dall’ideologia multiculturale. Zhan mostra, però, che le figure di alterità viscerale che portano allo scoperto i limiti razzisti della tolleranza multiculturale sono esse stesse costruite razzialmente attraverso le narrazioni sulle zoonosi. Piuttosto che “nocciolo di Alterità” – in cui l’eccessiva sostanza dell’alterità culturale è un’essenza “reale”, preesistente al piano del discorso – Zhan suggerisce che «il viscerale è già discorsivo» [15].
Come sostengono Hardt e Negri, « la malattia è un segno di corruzione fisica e morale, un segno di mancanza di civiltà. Il colonialismo è dunque giustificato dall’igiene che esso porta con sé» [16].
La speculazione pandemica può essere vistacome un progetto civilizzatore che opera, nello specifico, percorreggere l’intimità non igienica deə altrə etnicizzatə con glianimalinell’epocadellaglobalizzazione.
Note
La numerazione delle note è adattata alla pubblicazione dell’estratto. I titoli dei paragrafi sono una proposta della redazione per facilitare la lettura.
[1] Colchester e Colchester, 2005: The Origin of Bovine Spongiform Encephalopathy: The Human Prion Disease Hypothesis, «The Lancet», 366, 9488, p. 859.
[2] L’articolo deə Colchester non è certo passato inosservato. Susaria Shankar, primario di neurologia presso il National Institute of Mental Health and Neuroscience di Bangalore, in India, ha subito mostrato come l’ipotesi non fosse basata su prove. La Hindu Human Rights Organization ha risposto al potenziale «sentimento anti-induista» sostenuto dall’ipotesi deə Colchester sostenendo che le pratiche funerarie indù sono un «comodo capro espiatorio» che solleva dalle responsabilità per la pratica del cannibalismo animale, pratica descritta come «forma innaturale di nutrimento e allevamento degli animali da reddito» (Singh R., 2012)
[3] Povinelli, 2002: The Cunning of Recognition: Indigenous Alterities and the Making of Australian Multiculturalism, Duke University Press, Durham, p. 5
[4] Povinelli, 2002, p. 27; Davis, 2005: The Monster at Our Door: The Global Threat of Avian Flu, The New Press, Londra, p. 47.
[5] Davis, 2005, p. 177.
[6] Briggs, 2005: Communicability, Racial Discourse, and Disease, «Annual Review of Anthropology», 34, p. 279. Come scrive Briggs a proposito della «biocomunicabilità»: «Il termine vuole essere un gioco di parole su vari registri. La comunicabilità suggerisce la trasmissibilità, la capacità di essere prontamente veicolabile, comprensibile in modo trasparente, come avviene per la capacità dei microbi di diffondersi da un corpo all’altro. Aggiungo un nuovo senso alla parola, in cui la comunicabilità è contagiosa: la capacità dei messaggi e delle ideologie in cui sono incorporati di trovare un pubblico, di localizzarlo socialmente e politicamente» (p. 274).
[7] Briggs, 2005, p. 275.
[8] Briggs, 2005, p. 277.
[9] Davis, 2005, p. 60.
[10] Briggs fa notare che, in un articolo di cronaca sulla Sars in Cina, «il New York Times mostrava immagini di cuochi che affettavano animali che non si trovano normalmente nei piatti americani e di clienti che sceglievano animali vivi, evidentemente esotici, per il loro pasto» (Briggs, 2005, p. 276).
[11] Zhan, 2005: Civet Cats, Fried Grasshoppers, and David Beckham’s Pajamas: Unruly Bodies after SARS, «American Anthropologist», 107, 1, p. 38.
[12] Zhan, 2005, p. 37.
[13] Zhan, 2005, p. 33.
[14] Zhan, 2005, p. 38.
[15] Zhan, 2005, p. 37 e 32.
[16] Hardt e Negri, 2003: Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, p. 134
Il laboratorio di Ecologie Politiche del Presente è uno spazio interdisciplinare intorno alla crisi ecologica del pianeta.