Il laboratorio di Ecologie Politiche del Presente è uno spazio…
Dal 9 dicembre 2021 sarà possibile trovare in libreria e ordinare il libro collettivo Trame. Pratiche e saperi per un’ecologia politica situata, a cura di Daniela Allocca, Nicola Capone, Gaia Del Giudice, Nina Ferrante, Ilenia Iengo, Giuseppe Orlandini, Roberto Sciarelli, Daniele Valisena, per la serie editoriale Ecologie Politiche del Presente pubblicata da Tamu edizioni.
Di quali narr/azioni abbiamo bisogno per intrecciare nuove relazioni tra noi umani, le altre specie viventi e il pianeta Terra?
Questo interrogativo è il nodo attorno cui si è sviluppato il lavoro collettivo di Trame – volume che apre la collana Ecologie politiche del presente (Epp) curata da un gruppo che si è creato a partire dall’omonimo laboratorio per Tamu Edizioni. Un libro che nasce da una serie di incontri, speculazioni ed intrecci, e che ha a Napoli il perno della sua matassa pratico-discorsiva ed ecologico-politica. L’ecologia politica è il filo che lega la straordinaria varietà di contributi racchiusi in questo volume nato da una elaborazione condivisa e collettiva, a partire da tre cicli di iniziative organizzate a Napoli dal laboratorio Epp tra il 2018 e il 2020. Epp nasce come spazio laboratoriale e di convergenza tra studiosə e attivistə provenienti da varie discipline e da diverse esperienze di ricerca, all’incrocio tra le istituzioni accademiche e culturali e i movimenti di lotta.
Espressione di una polifonia di approcci e temi che intrecciano l’ecologia politica come pratica tanto di analisi che di trasformazione della società, i differenti capitoli del libro offrono alcune coordinate teoriche, spaziali e socio-ecologiche per orientarsi nel territorio dell’ecologia politica. Il libro intende permettere allə lettorə di approcciare l’ecologia politica non solo attraverso le riflessioni formulate dallə studiosə, ma principalmente grazie alle storie, le esperienze e le testimonianze di attivistə, artistə e abitantə dei territori in cui lotte, pratiche e visioni alternative a quella totalizzante della modernità occidentale si sono già fatte «presente».
La posizionalità dalla quale si prende parola per raccontare la propria esperienza di oppressione e liberazione cambia radicalmente la narrazione, e quindi il significato delle storie che si raccontano.
Questa è la ragione per cui fin dal principio il metodo di lavoro di Epp è stato quello della costruzione di saperi militanti, prassi di ibridazione tra saperi critici accademici e saperi comunitari che animano le esperienze di resistenze territoriali e dei movimenti sociali.Il risultato è la costruzione di saperi situati, radicati nei territori e utili alle lotte.
Nel nostro caso, sia i seminari di Epp che tanti capitoli di questo volume sono stati elaborati insieme e all’interno dei movimenti sociali urbani, ecologisti, transfemministi e di difesa dei beni comuni che hanno attraversato il territorio napoletano e campano nel corso dell’ultimo decennio, rivolgendo il nostro sguardo alle altre importantissime esperienze di lotta del Sud Italia e dei tanti Sud del mondo. Questo non significa sostenere un posizionamento identitario, ma al contrario elaborare una prospettiva meridiana che, a partire dai margini, ci permetta di situare e comprendere le ecologie politiche del presente. Le esperienze che ispirano questo libro nascono dal basso, sono affermative e alternative all’univocità estrattivista, coloniale, patriarcale, capitalista.
L’ordine dei capitoli è stato pensato per immergere direttamente lə lettorə nel vivo delle lotte attualmente in corso, introducendolə alle parole chiave e le pratiche dei conflitti socio-ambientali. Un secondo nucleo di capitoli offre una prospettiva situata nell’ambiente urbano da cui prendono le mosse pratiche e discorsi, mentre il volume chiude con alcuni capitoli che propongono aperture teoriche ed onto-epistemologiche per pensare le ecologie politiche.
Il libro si apre quindi con un capitolo che è anche una sorta di manifesto, quello sulla Giustizia ambientale, intesa come campo di studi e di attivismo che porta alla luce l’ineguale esposizione alla contaminazione e al rischio ambientale di comunità spesso già affette da discriminazioni che seguono le linee di razza, classe, genere, disabilità, status giuridico e altre forme di oppressione e le loro intersezioni. Il capitolo prende le mosse dalle rivendicazioni ed elaborazioni delle lotte alla storica emergenza rifiuti e la terra dei fuochi, collegando il particolare e situato contesto di contaminazione, oppressione e trasformazione alla storia dei concetti e delle pratiche politiche che caratterizzano le mobilitazioni per la giustizia socio-ambientale negli Stati Uniti mettendo in luce teorie e pratiche transfemministe e saperi connessi all’agroecologia.
Il secondo capitolo fornisce invece importanti coordinate teoriche sul cambiamento climatico osservato su larga scala e sull’origine storico-ecologica della presente crisi ambientale, introducendo il dibattito sull’Antropocene. Attraverso il posizionamento critico dell’ecologia politica viene evidenziato che «lungi dall’essere una narrazione scientifica, oggettiva del presente, l’Antropocene è una narrazione tutta politica, ossia volta a escludere le disuguaglianze di potere dal campo visuale, negandone la rilevanza come fattori di causalità del cambiamento climatico. Tale negazione serve lo scopo di normalizzare l’attuale sistema politico-economico globalizzato, quello capitalista, che su quelle disuguaglianze è fondato». Il concetto di Capitalocene, adottato e trattato nel capitolo, critica l’idea di una contraddizione fra un generico Anthropos e l’ambiente terrestre, ricercando invece l’origine della crisi ecologica nella nascita del capitalismo, nell’eteropatriarcato e nella storia del colonialismo.
Questa traiettoria storica ha prodotto una concezione della natura come risorsa da sfruttare, sia essa sotto forma di bestiame prodotto negli allevamenti intensivi, di depositi di metalli rari da sfruttare per creare nuove tecnologie, o di combustibili fossili da estrarre, trasformare in energia e far circolare attraverso nuove e vecchie infrastrutture dall’impatto ambientale e sociale devastante. È questo il tema affrontato nel capitolo Estrattivismi, in cui le lotte contro la devastazione ambientale provocata dall’Eni a Gela, in Sicilia, si mischiano a quelle analoghe che attraversano il Texas d’Italia, la Basilicata, e si collegano a quelle contro il Tap, il viadotto che dal Mar Nero attraverserà Puglia e Abruzzo prima di collegarsi con l’hub del metano italiano in Emilia-Romagna. Queste lotte sono più vive e presenti che mai, e uniscono campagne e città in una comune battaglia per ripensare le relazioni socio-materiali ed ecologiche a partire dai territori, attraverso le infrastrutture, le relazioni produttive e il consumo di energia, di natura e di corpi. Altri esempi di esperienze di lotta nate dal basso, alternative all’univocità estrattivista, coloniale, patriarcale e capitalista si trovano nel capitolo dedicato alle Ecologie operaie. Qui è riportata la storia del comitato Lavoratori e cittadini Liberi e Pensanti di Taranto che lotta per il riconoscimento della violenza sistemica dell’Ilva di Taranto attraverso la logica del ricatto occupazionale con cui si obbligano le persone a scegliere tra salute e lavoro.
Con il capitolo Occupy Climate Change, il centro dell’analisi inizia a spostarsi verso la questione dell’ambiente urbano, offrendo prospettive concrete di politiche alternative all’imperativo dello sviluppo. Il contesto in cui emergono tali alternative è quello dei disastri climatici: questi sono, da un lato, ampiamente riconosciuti e sfruttati dal capitale finanziario come opportunità di profitto; d’altro lato, tuttavia, le popolazioni colpite tendono a sviluppare un particolare «comunismo dei disastri» che permette ai movimenti sociali e agli abitanti dei territori di organizzare forme di innovazione sociale dal basso. In questo capitolo, dunque, il People’s Climate Plan for New York City, sviluppato in seguito all’uragano Sandy, e «l’alleanza multispecie con la foresta», prodotta dagli abitanti della favela del morro da Babilônia a Rio de Janeiro, mostrano possibili percorsi di ri-politicizzazione del discorso sul cambiamento climatico. La stessa operazione viene svolta con lo strumento della future history, attraverso un racconto che ci invita a guardare al cambiamento climatico dai territori napoletani in cui gli usi e le storie urbane, industriali, rurali si mescolano e interagiscono.
Il capitolo successivo punta invece lo sguardo sulla Turistificazione, un processo di valorizzazione capitalista e trasformazione urbana che investe con particolare forza le città mediterranee. In questo capitolo si osserva come «la crescita dei flussi turistici sta investendo le principali città italiane (e non solo) in modo incontrollato, trasformando i centri storici in beni di consumo da cui estrarre valore attraverso un rapido processo di turistificazione […]». Un fenomeno che comporta una serie di esternalità negative, quali «l’espulsione degli abitanti, la precarizzazione del lavoro, la privatizzazione e la militarizzazione dello spazio pubblico, la mercificazione del patrimonio culturale, l’inquinamento». L’apparente mancanza di alternative alla depredazione spacciata per sviluppo è parte integrante dell’accelerazione neo-liberista e del silenziamento operato dal capitalismo nel cuore di molte città europee e italiane, Napoli in primis.
L’opposizione ai processi di turistificazione è animata da istanze di democratizzazione dello spazio urbano. Questo tema si lega a doppio filo ai processi di autogoverno dei beni comuni urbani, affrontati nel capitolo La cura del comune. I beni comuni sono qui intesi come sistemi vivi, animati dalle comunità che se ne prendono cura, le quali riproducono e rigenerano continuamente gli spazi e le risorse condivise tessendo nuove relazioni sociali, fondate sulla solidarietà e il mutuo appoggio. Viene qui riportata la testimonianza della comunità di abitanti e attivistə dello Scugnizzo Liberato, uno dei beni comuni emersi dagli ultimi dieci anni di sperimentazione neo-municipalista della città di Napoli.
Partecipare ai processi di autogestione, difesa e cura dei beni comuni significa sperimentare modi nuovi di relazionarsi con i luoghi che si abitano. In termini più generali, immaginare forme diverse di vita quotidiana e nuovi futuri possibili al tempo della crisi ambientale è un invito a re-immaginare forme di relazionalità diverse con il proprio territorio, con le memorie e le nature umane, non umane e più che umane che vivificano la città. Ecco che allora anche la pratica del camminare diventa «un dispositivo attivato dall’intento di oltrepassare i confini spaziali e disciplinari, interrogando la possibilità di spazi di negoziazione nella costruzione di un processo di dialogo e di estroversione» ponendo il corpo come collettore dei ritmi dello spazio sulla soglia tra natura e cultura. Il camminare diventa un metodo per posizionarsi in ascolto e prendere consapevolezza dei ritmi del proprio corpo, di quelli della società, del ritmo imposto dal capitalismo. Nel capitolo Camminare è/e cartografare, il cammino è presentato come forma im-mediata di «ascolto dell’esistente», come forma incarnata e situata per tracciare nuove traiettorie di senso ed estetiche, intessere relazioni, costruire comunità, paesaggi, per mappare e trasformare il proprio corpo e, attraverso questa mappatura itinerante, anche gli spazi che si attraversano. Il teatro, le cosmologie non occidentali, le fabulazioni più che umane, l’idrografia, sono tutti strumenti per ripensare con, attraverso e nei corpi nuove forme dell’abitare i luoghi al di fuori della «trappola territoriale dei confini nazionali e amministrativi».
Gli ultimi due contributi del volume, Cosmotecnica e Compost, emergono dal «bisogno di [creare] un nuovo pensiero: un cambio di paradigma» e di «ripensare il nostro ruolo nelle ecologie fuori dalle gerarchie dell’umano». Il capitolo Cosmotecnica invita a interpretare la questione ecologica «a partire da una tecnodiversità, cioè dalla questione del recupero non di diverse ontologie della natura, ma di diverse cosmotecniche, cioè concezioni della tecnica che coinvolgono relazioni eterogenee con il cosmo». Il tentativo che viene perseguito riguarda «la diversificazione delle narrazioni sulla tecnologia» in quanto strumento indispensabile «per liberare il potenziale presente» nella stessa tecnologia «dal depotenziamento operato dal sistema attraverso l’approccio ‘monoculturalista’ dominante». Tale monoculturalismo investe tanto la tecnologia quanto tutte le altre sfere del sociale, del culturale e dell’ecologico. E contro ogni monocultura materiale e culturale, il capitolo Compost propone di adottare una «strategia ‘simpoietica’, letteralmente del fare insieme, come parte di un gioco del filo o dell’arte di vivere su un pianeta danneggiato, stare nel/col disastro». I contributi presenti nel capitolo attaccano da più parti il pensiero antropocentrico, proponendo visioni socio-ecologiche originatesi nel movimento della permacultura, nel femminismo antispecista e nel pensiero vedico. Queste riflessioni così variegate si rivelano fondamentali anche per comprendere le radici della crisi socio-ecologica che si è manifestata attraverso la pandemia di Covid-19.
Quando nel 2018 Epp cominciò a tramare, l’ecologia politica in Italia era ancora una questione discussa per lo più da accademicə nelle università e nei circoli di ricerca più aperti alle questioni ambientali e ai dibattiti in corso tra intellettuali di lingua inglese e spagnola. Non è stato un caso però che proprio a Napoli, in un territorio in cui da decenni le questioni socio-ecologiche sono il cuore delle lotte politiche e socio-ambientali, questi fili rossi facenti capo a istanze tanto di ricerca quanto di lotta si fecero matassa. Il secondo ciclo di iniziative organizzate da Epp si è intrecciato con il movimento globale per la giustizia climatica, organizzando la scuola di formazione per climate strikers Life vs Capital, che si è svolta a Napoli nell’ottobre del 2019 in collaborazione con Fridays for Future. La presente pandemia ha definitivamente e tragicamente posto in primo piano i temi dell’attuale modello produttivo e dei suoi intrecci con le concezioni della natura, le ineguaglianze strutturali tra il Nord globale e i Sud del mondo, il capitalismo verde e l’infrastruttura che regge il sistema di produzione e di scambio mondiale. Allo stesso tempo, si osserva la necessità di rivitalizzare la spinta propositiva e resistenziale che i vari movimenti ambientalisti, soprattutto animati da giovani generazioni che si affacciano alla politica, avevano mostrato prima dello stop dovuto al Covid-19. Ecco che allora questo volume riprende i fili di questi movimenti, tramando, attraversando, invischiando e rimestando la matassa di idee, pratiche trasformative e istanze di lotta del presente e del futuro. Un’urgenza ancor più necessaria in un momento in cui proprio le forze responsabili della febbre planetaria e della devastazione socio-ecologica si fanno promotrici di false soluzioni calate dall’alto e tinte di verde: tra un ambientalismo del potere volto alla sopravvivenza di un sistema in coma e un ambientalismo popolare a tutela del vivente in tutte le sue forme, sappiamo da che parte stare.
In conclusione, Trame è naturalmente un invito ad abitare, riconoscere e seguire le interconnessioni che attraversano storie, corpi, ecologie, memorie e immaginazioni. Trame sono non solo i fili che legano, ma la stessa azione del legare, connettere, tramare. Il capitalismo ci vuole tutti individui, isolati e docili, soli e leali al sistema: è tempo di riprendere le trame, di connettere i fili e le lotte, di congiurare – che poi significa scegliersi le alleanze – e far emergere nuovi intrecci.
Il laboratorio di Ecologie Politiche del Presente è uno spazio interdisciplinare intorno alla crisi ecologica del pianeta.