Il laboratorio di Ecologie Politiche del Presente è uno spazio…
Intervista a tre voci per il numero tematico della rivista Géocarrefour, « Penser le politique par les déchets ». Entretien avec Claudia Cirelli et Fabrizio Maccaglia – The politicization of waste in Campania. Three voices conversation (Marco Armiero, Giacomo D’ Alisa, Salvatore Paolo De Rosa)
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Prendendo come esempio il caso campano, in che momento e secondo quali modalità i rifiuti sono diventati un tema di dibattito politico a livello locale e nazionale e oggetto d’interesse e di mobilitazioni della società civile e delle popolazioni locali?
Salvatore: In Italia, le relazioni problematiche tra comunitá, ambienti e scarti della produzione e del consumo emergono fin dagli albori dell’industrializzazione (penso alla valle Bormida, all’ILVA e all’Eternit di Casale Monferrato), per poi acuirsi durante e in seguito al boom economico degli anni ’60 del secolo scorso. Reazioni della societá civile contro l’inquinamento industriale attraversano tutto l’arco dell’espansione produttiva italiana, innescate dagli effetti visibili e invisibili su corpi e ambienti. In parallelo, e piú marcatamente in decadi recenti, la gestione dei rifiuti urbani diventa tema politico per via della conflittualitá tra i diversi approcci possibili alla gestione della materia di scarto, e a cuasa delle controversie intorno alla localizzazione degli impianti nei contesti locali. Anche in Campania si riscontrano conflitti fin dagli anni ’80 su approcci, modalitá e rischi della gestione dei rifiuti urbani. Sono questi i primi tentativi dell’ambientalismo popolare di affrontare le contraddizioni palesi nella governance ambientale delle risorse e del territorio, che poi esploderanno durante le diverse fasi dell’ “emergenza rifiuti”. In particolare, a partire dal 2000, una lunga stagione di mobilitazioni sociali in Campania reagisce all’imposizione di un ciclo dei rifiuti urbani basato su discariche e inceneritori da attuare in deroga alle leggi ordinarie, sordo alle richieste di condivisione e negoziazione con le popolazioni locali, e che insiste su territori ecologicamente giá compromessi. Quel che si profila in quegli anni, è il ruolo fondamentale dei comitati popolari nel contrastare gli attacchi di un vero e proprio sistema di estrazione di profitti e rendite dai rifiuti, che si nasconde dietro l’insegna mistificante dell’ “interesse pubblico”.
Marco: Non ho molto da aggiungere a quanto Salvatore ha riassunto brillantemente. Forse si può aggiungere una riflessione sulla categoria di “rifiuto” che mi pare essere ancora molto vaga e indefinita. Salvatore giustamente ha incluso nella sua risposta la questione della contaninazione industriale e dei costi del cosiddetto miracolo economico italiano; una storia che a lungo è rimasta invisibile nella memoria collettiva del paese. In questo senso, la categoria di rifiuto non comprende solo lo scarto urbano (quello che in liguaggio tecnico si chiama appunto rifiuto solido urbano) ma più in generale include l’ampia gamma di scarti che il nostro modo di vivere, produrre e consumare rilascia nell’ambiente. Da questo punto di vista, credo che sarebbe interessante ricercare le divergenze tra un ambientalismo preoccupato soprattutto del decoro e un ambientalismo che definirei di classe, concentrato sulla difesa della salute e delle comunità. La storia ambientale americana, ad esempio, ha lavorato su questi temi indagando le differenze tra il movimento per la pulizia e il decoro delle città e quello per la giustizia ambientale. Sarei curioso di scoprire se e in che misura questo tipo di divergenza sia avvenuta anche in Italia. Nel caso campano sono stati i movimenti ambientalisti di base a spostare l’attenzione dai rifiuti urbani in strada alla contaminazione tossica. Anche in quel caso mi pare che si possa rilevare una differenza tra chi ha chiesto a gran voce la pulizia del “salotto buono” della città e chi invece ha posto il problema delle comunità di sacrificio, ovvero di quei territori che sono stati utilizzati come discariche legali e illegali del benessere altrui. Insomma, mi verrebbe da dire che l’ambientalismo dei rifiuti è stato probabilmente più di uno.
Giacomo: Facendo eco a Marco ed in qualche modo parafrasandolo direi che sono possibili diverse narrazioni circa la politicizzazione dei rifiuti in Campania. Una è quella proposta da Salvatore, centrata sui processi di industrializzazione e sulle conseguenze che tali processi hanno sulle forme di mobilitazione in Campania. Un’altra la offre Marco quando ci invita a riflettere sulle differenti richieste e proposte che emergono da un ambientalismo estetico-civile, rispetto a quelle enunciate dall’ambientalismo materialista-popolare. Probabilmente le narrazzioni possibili su come il rifiuto diventa fulcro e sprone dell’agire politico sono centinaia di migliaia, quanti sono i campani che hanno partecipato ai movimenti per una diversa gestione dei rifiuti e per una diversa definizione di ciò che è rifiuto. Anche solo partendo dal caso Campano, le vie che percorrono la mala gestione dei rifiuti diventano infinite. Io ne propongo una fra le tante che mi sembrano importanti. Alla fine degli anni 80, in Campania si prova a realizzare un primo piano regionale dei rifiuti ma i membri di Legambiente Campania mettono in evidenza la problematicità delle decisioni prese. Legambiente è oggi una tra le piú grandi associazioni ambientaliste Italiane, in quegli anni può considerarsi la costola verde del Partito Comunista (PCI). Angelo Genovese, membro del comitato scientifico di Legambiente e iscritto al PCI, in una nota inivata ai giornali e a diverse rappresentanze politiche fu tra i primi a denunciare il possibile arrivo in Campania di rifiuti dagli Stati Uniti (probabilmente dalla saturata New York); la poca transparenza delle decisioni prese circa la regionalizzazione delle discariche, fino ad allora per lo più municipali; nonché il sistematico occultamento dei livelli di contaminazione che caratterizavano, già allora, le discariche che accoglievano indistinatamente rifiuti urbani e industriali. Angelo è stato una fonte importantissima di conoscenza e ha agito in molte occasione da agitatore delle mobilitazione sulla questione dei rifiuti in Campania. Il suo attivismo ci parla di una attivismo di un compagno comunista. Ovviamente la questione rifiuti é andata molto oltre il suo protagonismo politico-ambientalista, e va da se che i movimenti dei rifiuti che hanno attraversato la Campania in questi quattro decenni non possono in nessun modo essere ridotti all’esperienza di Genovese. Ma narrare le lotte dei diversi protoganisti della questione rifiuti è una via lungo la quale chiunque può legittimamente incamminarsi. E di “Masanielli dei rifiuti” in Campania in tutti questi decenni ne sono sorti tanti. Questi Masanielli mi pare che sono diventati movimento politico forte e contundente quando sono confluiti, senza perdere la diversità e la pluralità delle esperienze e delle voci, su un minimo comune denominatore: la salute. L’apice della politicizzazione dei rifiuti mi pare si raggiunga quando la sua mala gestione si materializza nelle terre inquinate, nel bestiame moribondo e nei corpi malati dei campani. É la questione della salute che accomuna la mala gestione dei rifiuti in Campania con altre lotte in altre geografie del mondo (ciò di cui parla Marco) e con altre storie di conflitto ambientale (ciò da cui parte Salvatore).
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In che modo le differenti crisi hanno cambiato la posizione dei rifiuti nell’agenda locale e nazionale degli attori politici italiani? Inoltre, considerando il ripetersi di queste crisi, c’è stata una riformulazione della questione ambientale a partire del tema dei rifiuti?
Salvatore: le cosiddette “crisi” dei rifiuti urbani in Campania, e i conflitti che le hanno attraversate, hanno reso visibile il fronteggiarsi di approcci divergenti alla gestione degli scarti del consumo, ma hanno anche palesato la natura sistemica dei rifiuti nel modello economico dominante. I rifiuti sono il lato “oscuro” di una crescita economica concepita come infinita, la quale risulta eticamente accettabile solo perchè è nutrita quotidianamente dall’idea che le cose si possono gettare all’infinito, poichè tali “esternalitá” sono gestite e smaltite senza creare problemi. Immaginare che il pianeta sia infinito e che gli scarti scompaiano; è questa la fantasia alla base dell’attuale modello economico. In Campania, i movimenti sociali sono giunti a queste conclusioni dopo aver affrontato il percorso accidentato di una costruzione autonoma di saperi attraverso la lotta, lo studio e il confronto con esperti non allineati al potere. I movimenti campani, da un lato hanno contrastato una modalitá di gestione incentrata sull’accumulo di rifiuti in siti di stoccaggio destinati all’incenerimento, secondo il progetto dell’azienda appaltatrice facente capo a Impregilo, e ratificato dal Commissario all’emergenza. Dall’altro, hanno richiesto una gestione improntata primariamente alla riduzione e in seconda battuta al riciclo dei rifiuti, giudicata piú sostenibile, con meno rischi sanitari, e improntata a una transizione verso l’economia circolare. I conflitti campani hanno mostrato la competizione tra questi due approcci, influenzando il dibattito nazionale e locale. Sul medio termine, è diventato impossibile per gli esponenti politici locali non confrontarsi con tale nodo, prendendo posizione. Significativa in tal senso è la piattaforma che ha condotto De Magistris alla rielezione come sindaco di Napoli, che recepiva le posizioni dei comitati nel proposito di non costruire nuovi inceneritori per servire la cittá. Tali istanze sono state assunte anche dall’amministrazione regionale, che ha ratificato l’economia circolare come obiettivo, dimostrando l’impatto a lungo termine delle alternative proposte dal basso. Rispetto alla questione della salubritá degli ambienti, l’influenza delle mobilitazioni campane è riscontrabile nella crescente attenzione pubblica e politica agli scarti nocivi delle produzioni industriali, legali e sommerse, e allo stato delle bonifiche. Le risorse economiche programmate e gli interventi normativi dei governi recenti per aumentare controlli, mappature e risanamento dei siti inquinati vanno lette anche nel contesto delle denunce e delle richieste maturate nella stagione conflittuale contro gli sversamenti tossici e i roghi di rifiuti in Campania.
Marco: Le cosiddette crisi dei rifiuti sono anche – certo non solo – strumenti retorici nella battaglia politica. Sacchetti di rifiuti inondano le strade e i nostri schermi in base non solo ai dati oggettivi del metabolismo (trasformazione dei flussi di energia e materia) urbano ma piuttosto alle partite politiche e agli interessi in gioco. Alcuni sono arrivati a sostenere che ci siano stati veri e proprio atti di sabotaggio per colpire amministrazioni cittadine o regionali. Questo per dire che i rifiuti sono inerentemente e sempre un fatto politico. Nel caso campano, la crisi dei rifiuti ha anzitutto costruito una rete di comunità resistenti e creato una diffusa politicizzazione della questione ambientale. Quindi dobbiamo metterci d’accordo su cosa intendiamo per attori politici. Io credo che le associazioni, i comitati, persino i singoli individui siano attori politici e la loro vera soggettivazione come attori politici sia passata per la mobilitazione ambientalista sui rifiuti. Se invece ragioniamo soprattutto sui decisori politici, Salvatore ha già illustrato bene come il successo politico di De Magistris in due tornate elettorali possa essere ricondotto anche a questa mobilitazione politica; direi che almeno due dei suoi assessori sono riconducibili a quella esperienza. Ma dovrei anche citare le molte altre esperienze locali che sono in un modo o nell’altro legate alla mobilitazione sui rifiuti: penso alla presentazione di liste civiche in diversi centri della regione, spesso con ottimi risultati (fino al 17 percento dei consensi), o alla decisione di partecipare alle recenti elezioni regionali con una lista ambientalista (Terra), frutto proprio di una coalizione tra diversi soggetti di base e alcuni partiti della sinistra. Per sintetizzare: la crisi ha fatto nascere nuove soggettività politiche e sociali, alcune delle quali non si sono tirate indietro nella sfida politica accettando tanto la competizione elettorale che il confronto istituzionale (penso al tavolo di confronto con il ministero dell’ambiente che la rete StopBiocidio porta avanti da mesi).
Giacomo: Questa domanda si compone di due questioni entrambi molto complesse che non possono essere risolte in poche righe. Proverò a illustrarne alcuni tratti di entrambi. Il primo aspetto riguarda i rifiuti e le agende politiche. Cinquecentocinquanta Comuni. Cinque Province. Una regione. Una Nazione. Nei 40 anni di questione rifiuti, se partiamo dalle vicende degli anni 80 a cui Salvatore e io abbiamo accenato, o nei 15 anni (1994-2009), se ci riferiamo alla gestione emergenziale dei rifiuti urbani, tutte le comunità politiche appartenti a queste delimitazioni amministrative sono state in qualche modo condizionate dalla politicizzazione dei rifiuti. Certo, determinati cicli, o crisi, hanno influenzato di più certe scale istituzionali che altre, ma l’articolazione dei movimenti ambientalisti per una diversa gestione e definizione di ció che è rifiuto le ha coinvolte tutte. Nel bene e nel male. Non solo la gestione dell’articolazione della politica a varie scale istituzionali. I rifiuti hanno anche fatto ascendere e inabbissare personalità politiche di vario calibro. Bassolino, il sindaco del rinascimento della città di Napoli, perde molti consensi durante il suo seconodo mandato da Presidente della Regione Campania per le vicende legate alla gestione dei rifiuti, essendo stato per 4 anni (2000-2004) Commissario delegato alla gestione dei rifiuti. Nello stesso periodo in cui Bassolino perde il suo sostegno popolare, Berlusconi imposta la sua terza candidatura a presidente del consiglio proprio sulla risoluzione della questione dei rifiuti in Campania. Nel 2008 viene eletto e per tutto il 2009 convoca una serie di consigli dei Ministri a Napoli, tutti centrati sulla risoluzione del dramma nazionale dei rifiuti in Campania. É suo il decreto che mette fine allo stato di emergenza per i rifiuti in Campania. Nel 2013, Marco e io scrivemmo un articolo poi pubblicato nella rivista Capitalism Nature Socialism sulle vicende di quel presunto miracolo Berlusconiano. Il Berlusconi con la scopa in mano che spazza le strade napoletane in fondo, e per assurdo, rappresenta quell’ambientalismo del decoro che Marco nella sua prima risposta contrapponeva agli attivisti della giustizia ambientale, che non si sono mai stancati di dire che non bastava pulire le strade della città per risolvere la questione rifiuti in Campania. Il secondo aspetto riguarda la riformulazione delle questioni ambientali a partire dai conflitti campani sui rifiuti. Una questione che andrebbe affrontata con la dovuta complessità. Ciò che dice Marco per i soggetti politici (nella mia risposta mi sono limitato a discutere le ripercussioni sulle figure canoniche di soggetti politici), vale anche per la riformulazione delle questioni ambientali. Possiamo riflettere sugli aspetti istituzionali-politici o anche sugli aspetti che riguardano i movimenti ambientalisti, le loro forme organizzative e narrative. In questa mia risposta mi soffermo sui cambi istituzionali-politici e voglio ricordare i cambi normativi forse più importanti a cui hanno contribuito i movimenti dei rifiuti in Campania. É difficile, infatti, dubitare che senza la grandissima manifestazione del 2013, denominata fiume in piena e organizzata dal coordinamento Stop Biocidio, il legislatore nazionale italiano non avrebbe mai penalizzato l’incendio abusivo dei rifuti, reato semplicemente amministrativo prima dell’approvazione del Decreto Legge 136 del 2013. Quelle mobilitazioni popolari che mettevano al centro delle loro rivendicazioni il diritto alla salute hanno velocizzato l’approvazione della legge 68 del 2015, che ha introdotto nel codice penale italiano quattro crimini ambientali. Una discussione che era aperta in commissione parlamentare da almeno un decennio ma che ogni volta finiiva in un nulla di fatto. Si può essere d’accordo sul fatto che quelle norme sono migliorabili, e che non rispettano appieno le domande che venivano dalle discussioni dei componenti della piattaforma Stop Biocidio, ma nessuno potrebbe negare che quei seppur parziali risultati legislativi non si sarebbero mai raggunti senza i conflitti alimentati dagli attivisti ambientali campani.
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Secondo quale logica hanno funzionato i rapporti tra governo e amministrazioni centrali da un lato e gli enti locali dall’altro nell’affrontare le situazioni di emergenza? In particolare, quali sono stati gli effetti del ricorso a misure straordinarie (ad esempio il commissariamento straordinario) sui processi decisionali dei poteri locali, regionali e nazionali in materia di rifiuti?
Salvatore: L’emergenza per la gestione dei rifiuti urbani in Campania, che è stata prorogata dal 1994 fino al 2009, ha riconfigurato i rapporti tra cittadini e istituzioni in maniera radicale. Una riconfigurazine profondamente antidemocratica come hanno dimostrato ricerche accademiche e processi della magistratura. I Commissari all’emergenza hanno infatti goduto di poteri straordinari, ingenti risorse economiche e della possibilitá di derogare alle leggi ambientali e alle procedure di consultazione con le popolazioni locali. Gli enti locali nei paesi della piana campana selezionati per ospitare impianti e discariche sono stati privati in sostanza dell’autoritá decisionale e del ruolo di monitoraggio sui propri territori. Ció ha permesso al Commissario di ignorare le condizioni di inquinamento pre-esistenti nei siti selezionati e le proposte alternative delle comunitá. I processi decisionali di governance ambientale sono stati quindi accentrati e privatizzati, in quanto l’azienda appaltatrice, esortata dalle banche creditrici, ha potuto influire in maniera determinante sulle scelte del Commissario. A livello piú generale, l’opacitá della gestione emergenziale ha causato il proliferare di clientelismi nella distribuzione di lavori e appalti, favori nella forma di deroghe e consulenze, e speculazioni sui terreni. Curiosamente, le misure straordinarie non hanno scalfito le penetrazioni criminali nel sistema degli appalti e non hanno impedito il riesplodere delle crisi di raccolta, con le famose immagini di Napoli sommersa dalla spazzatura a piú riprese tra il 2000 e il 2012. Il culmine dell’esautorazione degli enti locali dalle decisioni inerenti i propri territori si ha con l’approvazione del decreto legge 90/2008, convertito nella legge 123/2008, da parte del governo Berlusconi, con il quale, tra numerosi effetti, gli impianti dei rifiuti sono dichiarati siti d’interesse strategico presidiati dall’esercito, le proteste sono pesantemente criminalizzate e le deroghe alle leggi ordinarie fanno saltare le piú basilari norme a protezione di ambiente e salute.
Marco: Giacomo ha scritto di queste cose molto bene e prima di me, quindi potrà rispondere meglio. Non c’è dubbio che il regime emergenziale abbia ridotto gli spazi di democrazia e partecipazione. L’idea di una “emergenza” rifiuti (emergenza strana, lunga un ventennio) ha facilitato l’impostazione di tutta la vicenda campana in termini di misure emergenziali. Vorrei fare dunque alcune considerazioni generali su questo punto. Come ci ha insegnato Naomi Klein, il capitalismo si nutre di emergenze che consentono di imporre misure straordinare, piegare comunità e accumulare profitti. Quello che non potrebbe passare in tempi “normali”, diventa necessario nelle emergenze; e la logica emergenziale non lascia spazio al dissenso, alla protesta, alle alternative. Questa questione riguarda non solo i rifiuti campani ma credo l’intera crisi socio-ecologica. Con un’attivista della Rete StopBiocidio ho pubblicato un articolo su The Jacobin nel quale ponevamo il problema della opportunità di invocare l’emergenza climatica, proprio costruendo il nostro ragionamento a partire dalla esperienza napoletana. Per noi lo stato di emergenza serve sempre a difendere lo status quo, non a sovvertirlo. Come si fa a cercare risposte rapide ed efficienti senza rinunciare al confronto e magari anche al conflitto? Come si pone l’urgenza della questione ambientale senza cadere nello stato di emergenza?
Giacomo: L’uso, o potremmo dire più correttamente l’abuso, dei decreti emergenziali in Italia è funzionale all’accumulazione di ingenti risorse pubbliche da parte dei gruppi di potere. Questi ultimi in emergenza riescono più facilmente ad arricchirsi perchè possono evitare di rispettare le ordinarie norme di contrattazione pubblica, di sicurezza sul lavoro, e ambientali e abbassare così i loro costi di produzione. Dal canto loro alcune autorità pubbliche possono più facilmente colludere con impresari capitalisti perchè in emergenza sono autorizzati a derogare ai processi decisionali democratici e quindi evitare il controllo civile sulle loro decisioni. Questo abuso non è avvenuto solo in risposta alle catastrofi socio-ambientali e alla gestione dei rifiuti ma anche per appropriarsi dei milioni di euro pubblici spesi per i cosiddetti grandi eventi culturali (per esempio il fallimentare EXPO di Milano), sportivi (per esempio l’American Cup) e religiosi (per esempio Giornate Mondiali della Gioventù e affini). Questi processi spesso non avvengono senza intoppi proprio perchè altre autorità pubbliche possono in qualche modo fare da contrappeso e limitare il normale dispiegarsi dei poteri emergenziali. Per esempio, i sindaci con delle ordinanze municipali possono rallentare la realizzazione di determinate decisioni; i giudici della Corte dei Conti possono chiedere spiegazioni circa le spese realizzate; i magistrati ordinari possono impedire attività che ledono diritti fondamentali. In sostanza nelle democrazie liberali seppur efficaci oserei dire che gli stati di emergenza non lo sono del tutto, soprattuto perchè, oltre agli attriti istituzionali a cui accennavo sopra, ci sono le opposizioni sociali. Questo è il motivo per il quale le elitè hanno la necessità di ottenere il consenso delle persone. Devono riuscire a conformare le loro pratiche ai sensi comuni che circolano tra la maggior parte nel corpo sociale a cui le politiche emergenziali affetteranno. Ho definito questi processi emergenziocrazia, ovvero il potere che si dispiega attraverso le emergenze ma con il consenso delle persone. Per non dilungarmi oltre, mi limiterò a dire che lo slogan “io resto a casa” era il processo di formazione del consenso tra la popolazione per dichiarare lo stato di emergenza durante la prima ondata di pandemia COVID19. Per affrontare la questione dei rifiuti in Campania l’emergenziocrazia era all’opera in molte occasioni. Senza l’opera di questo processo non si può spiegare il (falso) miracolo di Berlusconi che nel 2009 fece sparire i rifiuti dalle strade di Napoli.
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Le crisi dei rifiuti hanno modificato strutturalmente i rapporti tra gli attori pubblici e quelli privati coinvolti nella gestione dei rifiuti nei territori oggetto dell’emergenza o, al contrario, hanno consolidato tali rapporti?
Salvatore: Il rapporto tra attori pubblici e privati è uno degli elementi piú complessi della lunga stagione emergenziale. In breve, si è assistito a un consolidamento di canali diretti di collaborazione tra attori pubblici e privati finalizzati a generare profitti e capitale politico senza necessariamente risolvere i nodi gestionali. Ció è stato certificato anche dalle Commissioni Parlamentari, che hanno messo nero su bianco l’evidenza di una riproduzione artificiale delle crisi di raccolta al fine di tenere in piedi il carrozzone cresciuto intorno all’emergenza. Abbiamo abbastanza evidenze per dimostrare come la “crisi” dei rifiuti urbani sia stata trasformata dai poteri preposti alla sua risoluzione in un’occasione di arricchimento per una varietá di attori economici privati, sia criminali che legittimi, attraverso deroghe alle leggi e distribuzione di lavori, consulenze e appalti. Ad esempio, l’azienda appaltatrice ha potuto concludere accordi privati con i proprietari dei terreni selezionati per ospitare impianti e siti di stoccaggio senza consultazione con enti locali e popolazioni interessate, aprendo alla speculazione sui terreni. Il meccanismo del subappalto ha fatto confluire risorse economiche verso aziende di trasporto, movimento terra e sicurezza privata spesso legate alla criminalitá organizzata. E condanne esemplari – come quelle comminate durante il processo Resit – hanno dimostrato l’intreccio tra apparati del governo, proprietari di discariche e traffico illecito di rifiuti. Si puó dire che l’espansione di questa zona grigia di collaborazione tra pubblico e privato per fini non assimilabili all’interesse pubblico sia stata il marchio piú evidente della gestione emergenziale.
Marco: Credo che Salvatore abbia spiegato bene il tipo di legami tossici che si sono creati tra pubblico e privato nella gestione dei rifiuti in Campania. Vorrei solo citare un altro tipo di triangolazione che forse andrebbe anche studiata con maggiore attenzione. Le imprese private, la rendita fondiaria, e le banche, non sono stati gli unici soggetti privati impegnati in questa crisi. Sono emerse anche le associazioni di cittadini che spesso hanno svolto un ruolo concreto. Penso ad esempio al ruolo degli osservatori civici che hanno monitorato siti di stoccaggio dei rifiuti oppure all’esperienza delle video denuncie dei fuochi tossici, che si sono rivelate fondamentali nella istituzione poi di una agenzia ad hoc per la Terra dei Fuochi. La collaborazione tra una NGO e un istituto di ricerca ha dato il via ad una interessantissima ricerca epidemiologica (Veritas). Dunque, privati e pubblico hanno interagito nella crisi dei rifiuti anche al di là delle relazioni tra società di smaltimento e governi locali.
Giacomo: Se ti riferisci al rapporto tra enti pubblici e imprese private con interessi nella gestione dei rifiuti, mi sembra non ci sia molto da aggiungere a ciò che ha detto Salvatore. In parte, del resto, anche la mia risposta precedente chiarisce alcune forme collusive tipiche dell’emergenzocrazia. Forse, però come suggerisce Marco bisognerebbe riflettere un pò di più su come l’attivismo contro la mala gestione dei rifiuti sia riuscito a cambiare la relazione tra autorità pubbliche e membri dei comitati cittadini, delle organizzazioni non governative e dell’associazionismo civico in Campania. Mi pari manchi una sistematizzazione delle innovazioni pubbliche-sociali generate da tanti anni di conflitto ambientale in Campania. Ad esempio, sarebbe interessante capire quali risultati si sono ottenuti grazie alla collaborazione tra gli osservatori civici e il Vice prefetto tra il 2015 ed il 2017. I responsabili del progetto europeo COHEIRS, avevano facilitato la creazione di gruppo di esperti creando possibilità di collaborazione tra membri dell’Istituto Scientifico Biomedico Euro Mediterraneo (ISBEM), l’Associazione Medici per l’Ambiente (ISDE Italia), il Centro Studi “Rifare” l’Europa e Donato Cafagna, delegato del Ministro degli Interni ai roghi in Terra dei fuochi in quegli anni. Il gruppo di esperti aveva l’obiettivo di formare più di 100 osservatori civici il cui compito era quello di segnalare le situazioni di criticità ambientali campane al Vice prefetto che sarebbe poi intervenuto con le forze dell’ordine a sua disposizione per evitare il procrastinarsi di effetti negativi sugli ecosistemi e la salute delle persone che frequentavano le zone segnalate. Non mi pare ci sia stato una valutazione di questi rapporto di collaborazione tra autorità pubbliche e volontari civili, e questo è sicuramente un peccato.
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Come affrontare la questione dell’ingiustizia ambientale, della solidarietà territoriale e della salute pubblica nella crisi dei rifiuti in Campania?
Salvatore: Ristabilire la veritá rispetto alla natura e alle motivazioni delle proteste popolari potrebbe essere un buon inizio in tal senso. L’ingiustizia ambientale perpetrata nei confronti delle popolazioni campane è stata soprattutto il risultato di un deficit democratico e di un discorso egemone rispetto a come concepire l’economia, e di conseguenza a come affrontare la creazione, la gestione e lo smaltimento dei rifiuti. L’obiettivo dei comitati locali durante le battaglie dei rifiuti è stato di dimostrare sostanzialmente due cose. Primo, che le condizioni ambientali locali dei siti selezionati risentivano giá pesantemente dell’inquinamento causato dal traffico illecito di rifiuti tossici (la vera questione nascosta da affrontare) e dall’ereditá di un’industrializzazione problematica e di breve durata. Da questo punto di vista, la prioritá era fermare gli sversamenti nocivi e realizzare le bonifiche, piuttosto che aggiungere ulteriori carichi ambientali. Secondo, che l’approccio alla gestione dei rifiuti urbani dei governi nazionali, del Commissario e dell’ azienda appaltatrice fosse retrogrado e insostenibile. L’approccio era orientato al profitto, piuttosto che a un uso razionale delle risorse, e imposto attraverso autoritarismo e repressione. I comitati popolari campani, confluiti oggi nella coalizione Stop Biocidio e nella Rete di Cittadinanza e Comunitá, hanno indicato la via per affrontare i nodi irrisolti e i rischi sanitari tuttora presenti. Questa via in Campania passa per la partecipazione reale delle comunitá alla gestione dei territori, per una campagna di biomonitoraggio individuale su larga scala che chiarisca il nesso di causalitá tra inquinamento da rifiuti e malattie, e per un programma di preservazione e aumento della salubritá ambientale tramite una moratoria sulle attivitá inquinanti in parallelo alla valorizzazione economica e sociale della vocazione agricola della regione.
Marco: La prima cosa da fare sarebbe riconoscere che esiste un problema di ingiustizia ambientale. Quando ho cominciato ha occuparmi di queste cose 15 anni fa, nessuno neppure parlava di giustizia ambientale. La questione dei rifiuti era una storia di camorra e di inefficienza, oppure di inciviltà – secondo i peggiori stereotipi anti-meridionali. Riconoscere che invece si tratta di una questione di giustizia ambientale significa cambiare prospettiva. Dire che il modo per affrontare la questione della ingiustizia ambientale è la lotta, il conflitto. Spesso si pensa che le cose non si risolvono perchè c’è conflitto che crea frizioni. Invece credo che il conflitto sia parte della soluzione e non del problema. Quando non c’è conflitto, l’ingiustizia ambientale procede indisturbata. È nel conflitto che nuove opzioni nascono e si sviluppano. Ed è nel conflitto che puó trovare sostegno. I grandi interessi economici, le classi dominanti, i politici corrotti, quelli che non sanno neppure cosa sia vivere vicino a una discarica, ammalarsi in fabbrica, o respirare fumi tossici non hanno nessun interesse a cambiare le cose. Le cose non cambiano perchè qualcuno propone un buon piano ma perchè cambiano i rapporti di forza. Per affrontare l’ingiustizia ambientale a Napoli come altrove occorre mobilitarsi e provare a mettere in discussione i sistemi di oppressione e sfruttamento che la riproducono continuamente.
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Quali sono gli effetti di proteste e mobilitazioni delle popolazioni locali contro l’installazione o la riapertura di impianti di trattamento dei rifiuti? E in particolare sulla gestione del rischio e sulla crisi sanitaria e ambientale?
Salvatore: Concordo con Marco che l’effetto principale delle mobilitazioni è stato di porre in primo piano la sostanziale ingiustizia ambientale cui le popolazione campane sono state sottoposte attraverso il conflitto. In termini concreti, una conseguenza inoppugnabile delle proteste in specifiche dispute contro discariche e inceneritori è stato di forzare i governanti a fornire maggiori maggiori garanzie a protezione dell’ambiente e della salute pubblica. Nel caso dell’inceneritore di Acerra, le proteste locali, pur fallendo nell’obiettivo ultimo di prevenire la costruzione dell’impianto, riuscirono a imporre ulteriori prescrizioni ambientali per ridurne la nocivitá. La discarica di Pianura, teatro di un’aspra battaglia, non venne mai riaperta poichè, in seguito alle proteste, emersero le condizioni di pesante inquinamento dovuto alla ricezione in passato di rifiuti nocivi. E lo stesso è accaduto per molti altri impianti e discariche: se non ci fossero state rivolte e attenzione da parte delle popolazioni locali, vi sarebbero oggi profili d’illeggittimitá e rischio sanitario e ambientali maggiori. Sugli sversamenti abusivi di rifiuti tossici e sui roghi di rifiuti, il ruolo dei comitati e delle coalizioni dell’ambientalismo popolare in Campania è stato di rendere tali traffici illeciti un argomento politico e sociale di vasta risonanza, spingendo all’assunzione di responsabilitá tutti i livelli istituzionali attraverso leggi e risorse dedicate. Se oggi abbiamo una buona legge sugli ecoreati, un testo ambientale aggiornato, e una legge specifica per arginare il problema dei roghi e degli sversamenti abusivi, come accennava Giacomo, lo si deve anche alla spinta dinamica e di ampia portata delle proteste e delle proposte campane. Certo le leggi non sono la stessa cosa di soluzioni effettive, ma questo dato sconfessa qualsiasi ipotesi di fantomatiche sindromi NIMBY, caldeggiata dai media e dai rappresentanti politici, in quanto critiche e alternative poste dalle comunitá hanno condotto a benefici collettivi, attenzione diffusa e leggi nazionali. In particolare, rispetto alla riduzione e al riciclo della materia come alternative virtuose agli inceneritori, i movimenti campani hanno posto un precedente di rilevanza nazionale, dimostrando che è possibile raggiungere percentuali alte di differenziata dovunque, basta volerlo e organizzarlo. Come accadde ad Acerra nel pieno della battaglia contro l’inceneritore: non esisteva al tempo un sistema per la raccolta differenziata e il riciclo dei rifiuti; i comitati ne organizzarono uno autogestito che funzionava a dovere, e quando finalmente le amministrazioni locali e regionali implementarono protocolli, strutture, incentivi e reti per il riciclo, le comunitá erano pronte. Oggi, Acerra è uno dei comuni del Sud Italia con la piú alta percentuale di raccolta differenziata.
Marco: Sono d’accordo con Salvatore, spesso le mobilitazioni popolari hanno avuto il merito di fermare opere dannose o almeno di tenerle sotto controllo. Credo che un grande merito sia stato porre la questione del rapporto tra inquinamento e salute che ha suscitato una serie di ricerche scientifiche, alcune portate avanti dalle istituzioni, altre da singoli ricercatori o da associazioni. Il ruolo della associazione Medici per l’Ambiente è stato fondamentale. È chiaro che proprio dall’ascolto delle criticità presentate dai cittadini si è generata una produzione di sapere scientifico. In questo senso, la crisi campana dimostra ancora una volta che una scienza socialmente impegnata non è una scienza “peggiore”, non neutrale e quindi poco affidabile, ma al contratrio una scienza in grado di produrre sapere nuovo proprio perchè si è lasciata interrogare dal conflitto.
Giacomo: Un passo importante potrebbe essere fatto con l’istituzione di un’unità di giustizia ambientale in seno all’Agenzia Regionale di Protezione Ambintale in Campania. L’unità di giustizia ambientale è una direzione interna all’Agenzia di Protezione Ambientale degli Stati Uniti d’America e fu istituita durante la presidenza Clinton proprio grazie alla forza politica dei movimenti di giustiza ambientale Americani. L’unità potrebbe avere una duplice funzione. La prima sarebbe quella di garantire che tutte le politiche, i programmi e le attività svolte dai funzionari dell’ARPAC integrino le questioni di giustizia ambientale. Per visualizzare situazioni di ingiustizia ambientale si potrebbero produrre una serie di mappe sovrapponibili sullo stato di salute, d’inquinamento, di generazione dei rifiuti e condizioni sociali ed economiche a diverse scale geografiche della regione. La seconda funzione consisterebbe nel consolidare il rapporto con i cittadini, le associazioni e le imprese, garantendo la possibilità reale di partecipazione dei diversi attori sociali ed economici alla progettazione e realizzazione delle politiche ambientali in regione.
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Che impatto hanno avuto le crisi dei rifiuti sulle rappresentazioni della politica?
Salvatore: Le crisi dei rifiuti hanno dimostrato, a chi si è sforzato di guardare oltre le narrazioni tossiche, che le scelte in materia di ambiente e gestione delle risorse non possono essere lasciate a zone grigie di deroghe emergenziali e di collaborazioni pubblico-privato al di fuori del controllo e dell’influenza delle comunitá locali. L’ereditá delle mobilitazioni va ben oltre i rifiuti, in quanto è stato posto il principio, che emerge anche in altri conflitti ambientali italiani, per il quale la natura e i cambiamenti ambientali sono questione politica preminente, che necessita del piú altro grado di coinvolgimento e dibattito, e assecondando il principio di precauzione. Piú nello specifico, le crisi dei rifiuti hanno dimostrato qualcosa che in Italia sembra essere comune a molti territori: le emergenze diventano spesso occasioni di profitto e di clientelismo politico, in cui i costi vengono scaricati sulle comunitá; la gestione dei servizi è un ambito di infiltrazione di interessi criminali in tutti i passaggi; la mancanza di partecipazione delle popolazioni locali nelle decisioni conduce frequentemente all’imposizione di progetti che non apportano benefici distribuiti equamente ma sono espressione di un sistema predatorio e distruttivo.
Marco: Come sempre mi chiedo cosa si intende con l’espressione “politica”. Se stiamo parlando di decisori politici, la crisi dei rifiuti ha fatto emergere tutta la loro inadeguatezza. Ma se invece per politica intendiamo la cura della cosa comune o pubblica, la crisi dei rifiuti è stata una gran bella esperienza. É emersa chiaramente una rete di comunità che si è mobilitata per la difesa della salute e del territorio. Una infrastruttura pregressa di militanza sociale e politica si è riattivata, costruendo per altro reti inaspettate tra parrocchie, centri sociali, anziani e giovani generazioni. Ne è uscita una politica generosa, perchè come ha spiegato Salvatore, solo una narrativa tossica ha potuto parlare di sindrome NIMBY di fronte a una continua dimostrazione di solidarietà tra comunità in lotta, anche a migliaia di chilometri di distanza. Come abbiamo provato a raccontare in tanti nostri lavori, a volte le battaglie sono state perse, la discarica o l’inceneritore sono stati aperti, ma la comunità che si è creata intorno a quella resistenza è rimasta, producendo frutti inaspettati, a volte apparentemente lontani dalla battaglia iniziale, come mostre d’arte, rassegne di cinema, associazioni, o semplicemente legami affettivi. Perchè la lotta contro i rifiuti è anche una lotta contro quelle relazioni socio-ecologiche che trasformano tutte e tutti in scarto, gente e comunità senza valore. Per questo direi che la rappresentazione della politica che esce da quella vicenda è bellissima; davvero come diceva De Andrè “dal letame nascono i fiori”.
Giacomo: Mi pare che lungo l’intervista abbiamo toccato varie questioni che danno risposte a questa domanda. La politica istituzionale e i suoi rappresentanti hanno dovuto far credere che avevano a cuore la questione rifiuti per (ri)conquistarsi il potere. Diversi attivisti hanno deciso di occupare posti istituzionali nella speranza di poter incidere nelle scelte politiche attinenti i rifiuti. Fin qui un’evoluzione direi tipica di forze sociali e politiche che cambiano in simbiosi con i problemi che le trasformazioni socio-economiche ed ambientali generano. I processi di politicizzazioni e soggettivizzazione politica che si sono innescati a partire dai conflitti per una diversa gestione dei rifiuti in Campania vanno al di là dei cambi politico-istituionali. Marco ha ragione. Mi pare, però, un processo di sedimentazione non ci sia stato, le forze formatesi sul campo del conflitto per i rifiuti, mi sembrano di nuovo disperse. Bisognerà aspettare che qualcuno faciliti l’impollinazione dei fiori nati dal letame. O magari sono fiori di piante rizomatiche che si stanno già espandendo in maniera invisibile nel humus politico campano.
Il laboratorio di Ecologie Politiche del Presente è uno spazio interdisciplinare intorno alla crisi ecologica del pianeta.